Stewart odia Obama e non so perché

25 gennaio 2010

Stewart non è un mio cliente. D’altronde, non potrebbe essere altrimenti, io non ho clienti. Nel mio ufficio assiso a produrre pseudo-giustificazioni giuridiche per salvare dall’espulsione questo o quell’altro clandestino, io conosco i clienti dello studio Cavaturaccioli solo riflessi nelle carte che li riguardano, nei volti irriconoscibili delle fotocopie dei loro passaporti. La gestione del cliente vis-à-vis, dunque, non è compito mio, hanno capito qua dentro che non sono tipo da pubbliche relazioni, sono un freddo e metodico giuristocrate che analizza sentenze, precedenti, norme di legge, anche perchè ho una innata propensione a mandare a cagare chi mi fa perdere del tempo.

La mia stanza è però contigua allo studio di una avvocatessa che di clienti ne riceve a bizzeffe in ogni momento del giorno. Ci separa solo una improbabile parete di cartongesso, col risultato che lei ascolta tutto il giorno il mio ticchettare, sfogliare, sgranocchiare, ma anche il mio ruttare e il mio petare, mentre io conosco a menadito tutti i suoi clienti e le loro grane, pur non avendoli a volte visti mai manco di striscio.

Stewart è un signore congolese alto e magro, vestito sempre di tutto punto, un completo scuro, una camicia colorata, delle scarpe nere nere e lucide lucide. Quando lo incrocio in sala d’aspetto, mi ricambia il saluto con un grugnito incazzato prima ancora che con un buongiorno. Eh si, perchè Stewart è sempre perennemente incazzato come una bestia. Ha intentato cause civili e penali nei confronti di chiunque. Istituti previdenziali, questure, avvocati, amministratori di condominio, nessuno è sfuggito a qualche sua citazione, denuncia, esposto, querela, segnalazione. In Italia da anni, ha imparato ad abusare delle aule di tribunale come il più litigioso dei meridionali, come il più spaccacazzi dei settentrionali. Quando entra nello studio dell’avvocatessa, pretende che sia fatta giustizia, portando con sè voluminose prove dell’ennesimo torto subito, fogli, brogliacci, analisi radiologiche, fotografie di macchine, articoli di giornale congolesi, sentenze dei tribunali svizzeri.

In realtà io non capto tutto quello che dice. Tende infatti per la maggior parte del tempo a borbottare con un filo di voce, temendo di essere ascoltato in giro. Maniaco dei complotti, ci tiene ad una assoluta privacy, e dunque spiattella i suoi racconti come se fossero confidenze tra comari in chiesa. Poi però non regge la tensione, e lo sprezzo per l’ingiustizia subita ogni tanto esplode con esagitate filippiche contro il sistema, alternate da pugni sbattuti pesantemente sul tavolo. Chiama in causa chiunque, nella ricostruzione dei suoi guai, dal vicino di casa al passante in bicicletta, fino a citare due VIP che hanno segnato ogni sua disavventura giudiziaria, ovvero Bossi ed Obama. Nei suoi discorsi alternati tra soffuse voci e grida intemerate, si evince che la colpa del suo divieto di sosta come della cartella esattoriale è, gira che ti rigira, addebitabile tra gli altri a Bossi e ad Obama. Cerco di captare meglio le sue geremiadi, ricollegando i fatti alle figure dei due politici, ma alla fine ne so come sempre, ovvero nulla. Posso anche capire che un congolese ce l’abbia con un leghista, anche se non so cosa c’entri con il pagamento delle quote condominiali con quei simpaticoni del carroccio, però sta cosa che ce l’ha a morte con Obama mi incuriosisce parecchio. Attacco la recchia al cartongesso e cerco di capire, ma Stewart sragiona per due ore ininterrottamente, e alla fine mi ritrovo solo un gran mal di testa e il torcicollo. Leggi il seguito di questo post »


Moses era il principe del suo villaggio

26 ottobre 2009

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Nello studio Cavaturaccioli ove mi pregio di lavorare è arrivato nientepopodimeno che un principe. Nessuno mi aveva avvisato di cotanto sangue blu, e nemmeno che sarei stato addirittura io a riceverlo. Altrimenti mi sarei attrezzato se non con un tappeto rosso, quanto meno con una giacca e una cravatta, una volta tanto.

Ad ogni modo, il principe fa ingresso nella mia stanza. Non che esista una fisiognomica della nobiltà, certo, però me lo sarei aspettato più principesco, elegante nella postura e nelle movenze. E invece mi trotterella davanti un ragazzino nero e basso e magro, sgusciante di movimenti, con un sorriso un po’ stordito. Sembra un elfo, anzi, se il Signore degli Anelli fosse stato ambientato in Gambia anzichè nella Terra di Mezzo, il principe avrebbe potuto interpretare degnamente il ruolo di Legolas.

Cosa induce a bussare a sto convento addirittura un principe? Questioni successorie? Noie diplomatiche? Casini fiscali? No signori, qui è un problema di esilio. Il principe Moses, così si chiama, viene da me perchè è stato costretto alla fuga e all’esilio dal suo villaggio, ed ora pretende giustizia. Arrivato in Italia con mezzi di fortuna, mescolandosi alla profanità di altri volgari immigrati comuni, il principe ha subito chiesto di essere dichiarato rifugiato politico. Ma scandalosamente, una commissione territoriale lo ha impunemente offeso negandogli qualsiasi protezione, anzi dicendogli che se ne può tornare allegramente dove è venuto e che la sua storia risulta poco o per niente credibile. Una vergogna, un affronto. Scopriamo qual’è la storia di Moses, e da soli potrete rendervi conto dell’ingiustizia subita dal nostro principesco cliente.

Davanti a me ho il fascicolo sull’asilo politico richiesto dal principe. Quello che c’è scritto è francamente incredibile, l’ho riletto più volte perchè non posso credere che ci sia scritto proprio quella roba lì. Quindi chiedo a Moses di spiegarmi la sua storia con parole sue, che pare facile, perchè l’angloafricano è una lingua misteriosa che farebbe ammattire il più colto dei linguisti. Purtroppo, nonostante sia un principe, sono costretto a dargli del “tu”, perchè credetemi, se si da del “lei” o del “voi” ad immigrati anglofoni che parlano male l’italiano, il risultato è la totale incomunicabilità.

“Dunque Moses, qui c’è scritto che eri il principe del tuo villaggio? Du iu rilli vuas de Prinz of de villag? Uot mins iu vuas the prinz of de villag?

Lui non si scompone: “Mai fader uas prins of mai village antil i dai. After is det, ai bicheim de prinz.”

Lo guardo come si guarda il più spudorato dei cazzari. “Bat iour villag is not a kingdom, Moses, Gambia is a repablic, INSOMMA DI CHE CAZZO STAI PARLANDO? (l’ultima domanda l’ho solo pensata).

Lui ripete la stessa solfa, sdegnosamente ignorando i miei dubbi sull’autenticità di quella versione ufficiale. Leggi il seguito di questo post »


Nardeep fa la colf per i suoi fratelli

18 settembre 2009

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Arrivano insieme, in fila. Identici, tre gemelli omozigoti, o se non lo sono vuol dire che vedo triplo. Vestiti uguali, con una tunica bianca, stessa carnagione olivastra, capelli crespi e neri, folte sopracciglia, un accenno di baffetto sopra le labbra. Un viso da ragazzini, e infatti non hanno più di 25 anni. Educati, silenziosi, timidi, fa tutto molto indiano. Nei passaporti c’è scritto che si chiamano Pandeep, Sandeep e Nardeep.

I primi due sono regolari in Italia, il terzo no. E quindi Nardeep farà la colf per i fratelli, ottenendo così il suo bravo permesso di soggiorno.Ed io sono lì per aiutarli a realizzare il sogno di Nardeep, ovvero pulire i cessi intasati di feci dei suoi fratelli.

Si siedono davanti a me. Sapete, ho bisogno di vari documenti per compilare la domanda di sanatoria. Quisquilie, una formalità, tutto molto semplice.

Ma qui inizia la tragedia, altro che commedia degli equivoci, altro che Plauto.

“Dunque, mi servono i documenti d’identità dei datori di lavoro, quindi di…ehm…Pandeep e (cinque secondi a scartabellare furiosamente nel fascicolo) Sandeep”. Dico tutto questo rivolgendomi però a Nardeep, che infatti mi indica col dito i suoi fratelloni. “Ah, siete voi”, faccio voltandomi verso Pandeep e Sandeep.

Vabè, può capitare.

Due minuti dopo.

“Ho bisogno poi dei documenti del lavoratore, dunque, ehm (dieci secondi di consultazione) Sandeep? No, Par…ah, sì, Nardeep” epperò mi sto rivolgendo a Pandeep, che mi indica col dito la sua futura colf.

Sta diventando tutto molto più complicato del previsto.

Cinque minuti dopo.

“Dunque, il datore di lavoro principale deve mettere una firma qui, quindi, ehm, Mandee…Pard…Ramsete…no, Sandeep, si si, Sandeep”, e così riesco a divincolarmi, leggermente ubriaco, con la lingua attorcigliata da scioglilingua terribili sotto forma di  una selva di nomi anagrammati.

Però mi sto rivolgendo a Nardeep, che mi indica col dito il suo prossimo datore di lavoro.

Sudo dalla schiena, dal culo e dalla fronte.

Quattro minuti dopo.

“Allora, la dichiarazione dei redditi 2008 di Man…Pram…Pandeep, si, Pandeep, la sommiamo a quella del fratello Tardeep, no, Sanjab.. Sampei….Sandeep, cristo, Sandeep, si…”

Questa volta però mi faccio furbo e non guardo nessuno, attendendo che uno dei tre mi fornisca il documento, perchè a capire chi è Sandeep mi ci vorrebbe un aruspice. Nessuno però si muove. Maledetti bastardi. Quindi alzo lo sguardo e punto quello che credo sia Pandeep. E invece è Sandeep, che mi indica col dito suo fratello.

Dentro di me diverse divinità indù vengono orribilmente lese nella loro dignità. Leggi il seguito di questo post »


Alta tecnologia orientale

17 luglio 2009

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Uno dei soci del pregiato studio legale Cavaturaccioli è in partenza per le ferie. Sarà la crisi, o sarà il gusto per l’avventura, ma il mio socio non andrà in qualche resort a sfoggiare i suoi milioni di euro (ammesso che ce li abbia, cosa di cui dubito), bensì  andrà a fare campeggio tre settimane nella lontana e lapilleggiante Islanda. Anche approfittando, come ogni avvoltoio leguleio che si rispetti, del fatto che i prezzacci che impedivano ad oggi di recarsi nella terra vichinga sono miseramente crollati dopo la bancarotta proclamata da quel paese qualche tempo fa, in un penoso sventolio di bandiere bianche.

Fare campeggio vero significa attrezzarsi, prevedere ogni imprevisto, non lasciare niente al caso. Sia io che lui abbiamo fatto gli scout e quindi sappiamo cosa voglia dire. Preparazione prima di tutto. Lui forse se lo è dimenticato, però.

Piomba nel mio studio felice come una Pasqua, con un bel sacchetto in mano, tutto ripieno di cose preziose.

“Guarda, roba per il campeggio, in tutto l’ho pagata 10 euro..”

“Solo dieci euro? E che c’è dentro?”

“Dunque, un coltellino tipo quelli svizzeri, un coltello monolama tipo Opinel, una torcia di quelle da pescatore che si mettono in fronte, e pure una calcolatrice che mi hanno regalato in omaggio..”

Sono perplesso.

“Un coltello “tipo” svizzero? Un coltello “tipo” opinel? Dieci euro in tutto? Sarai stato mica dai cinesi?

“Certo! Ma sai quanto costano i coltelli nelle armerie? E le torce nei negozi da campeggio?”

“Certo che lo so, ma almeno lì i coltelli tagliano e le torce si accendono”.

“Sei il solito prevenuto razzista. Mica fanno solo roba di merda i cinesi”.

“Non lo metto in dubbio. Ma metto in dubbio che con dieci euro tu abbia acquistato roba affidabile che può durare tre settimane in un campeggio quasi selvaggio nella spopolata Islanda, in mezzo ai geyser…”

“Guarda che ho fatto lo scout più tempo di te…guarda che ho comprato, e vedrai…”

Dalla busta escono nell’ordine: un coltellino multiuso, tipo svizzero, appunto, ma più tozzo e di un rosso più scuro e spento di quelli Victorinox originali; una lama da 3-4 cm, tipo Opinel, con l’impugnatura in finta radica, una roba che manco un guappo la userebbe senza sentirsi un po’ kitch; una torcia da pescatore; una calcolatrice con schermo richiudibile. Leggi il seguito di questo post »


Tony incendiava le case

7 luglio 2009

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Nel loft preterintenzionale in cui mi trovo assiso nell’esercitare il mestiere più antico del mondo (avete capito bene, è proprio l’avvocatura) ogni tanto si palesano in carne ed ossa dei clienti, a strapparmi dalla furiosa scrittura di atti giuridici stilisticamente ineccepibili ma che sostanzialmente non dicono un beneamato cazzo.

Tony capitò qualche tempo fa, per una richiesta di asilo politico da istruire, e non ci misi molto a capire che apparteneva ad una delle categorie più imprevedibili di clienti che ti possono capitare: i commedianti, e chiamiamoli così per amor di eufemismo.

Allor dunque dovete sapere che chi viene a chiedere asilo politico ha spesse volte reali esigenze di trovare uno Stato che lo accolga in fuga da un paese che non gli permette l’esercizio delle libertà e dei diritti fondamentali. Altre volte è un solo un modo per ottenere di rimanere in Italia, inutile girarci intorno. Nella seconda categoria ci sono quelli che hanno un minimo di pudore, che raccontano storie di ordinaria povertà e miseria, che non ti garantiscono l’asilo ma capisci tante cose comunque. E poi ci sono i cazzari. Quelli che per ottenere l’asilo fanno a gara a chi la spara più grossa, a chi si inventa la storia più incredibile . E manco a dirlo, i cazzari vengono tutti allo Studio Cavaturaccioli, attirati come calamite verso gli atti che poi io, con enorme vergogna di me stesso, dovrò scrivere e che i miei capoccia, con vergogna diciamo minore, andranno a rileggere e firmare.

Tony è un gigante d’ebano con un collo del diametro della mia testa. Ha certe mani che me lo immagino mentre apre  stritolando facilmente un barattolo di spinaci stile Popeye. Parla l’inglese tipico delle ex colonie africane dell’impero britannico. Un inglese maccheronico e spudorato, eppure per me incomprensibile, data la mia idiosincrasia con quella lingua per commercianti di patate. Riesce però a parlare un italiano ancor più maccheronico, e quindi sono salvo. Vi risparmio i vari “lost in traslation” e vi sbobino un dialogo che pare quasi normale ma che, vi assicuro, normale non è stato.

“Allora Tony, che ti è successo che te ne sei scappato fino a qui per chiedere asilo?”

“Un giorno sono venuti alcuni militari dell’etnia nemica nel nostro villaggio. Hanno cominciato a uccidere le persone con i machete. La casa dei miei genitori e dei miei fratelli è bruciata”.

“Sono morti?”

“Non lo so, non li ho più visti.”

Gli chiedo quando è successa questa cosa. Due anni fa, mi dice. Cerco qualcosa, qualsiasi cosa, che assomigli ad un eccidio più o meno in quella regione, più o meno nell’anno indicato, su internet. La ricerca mi restituisce una pernacchia. Sul sito di Amnesty international poco ci manca che esca una schermata con un dito medio.

“E tu che hai fatto?”

“Ho radunato la gente della mia etnia.  Ho cominciato a bruciare le case dei nemici. Indicavo le case da bruciare e i miei compagni bruciavano.”

La mascella mi cala e rimango come un ebete con la bocca aperta. Di cazzari ne ho sentiti, ma uno che si autoaccusa di pulizia etnica per avere un asilo politico non era ancora arrivato. Leggi il seguito di questo post »


Kabir risveglia l’ipocondriaco che è in me

3 giugno 2009

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Premetto che, avendo constatato come le chiavi di ricerca del mio blog facciano accorrere da ogni dove gente piena di nei, fratturati al coccige, e persone in preda ad ansia da fascicolazioni, è il caso di sfruttare questo filone continuando a raccontare della mia perenne lotta contro l’ipocondria. In assenza di ghiotte rivelazioni sulla mia attività sessuale, e in mancanza di tags di carattere pornografico, per far campare il blog devo usare questi mezzucci.

Nella storia della mia ipocondria la paura di beccare una malattia infettiva ha sempre pesato in modo preponderante. A parte qualche isolata paura di avere un tumore, era anzitutto l’idea di prendermi un virus di quelli indistruttibili che ti spediscono a suonare il liuto davanti al Creatore, a nutrire la mia macerante paura di non essere sano.

E in effetti, il mio primo attacco di ipocondria risale a quando avevo 21 anni. A quei tempi, a metà anni ’90, l’AIDS esisteva ancora, e giustamente c’erano fior di iniziative e pubblicità per informare i cittadini sulla malattia, sui rischi e sulla prevenzione. I preservativi in tv andavano a qualsiasi ora, e se ricordate il tormentone “di chi è questo?” pronunziato in una classe scolastica da un professore che aveva trovato un goldone per terra, beh, avete capito a cosa alludo. Oggi per fortuna l’AIDS non c’è più, e quindi i preservativi sono tornati ad essere un oggetto sconosciuto e giustamente condannato da intelligentissimi uomini con lunghe gonnelle bianche come inutile ed informe sacca di lattice empia e per nulla casta.

Beh, io a quei tempi, guardando un depliant informativo sulla malattia, mi accorsi che si poteva prendere l’HIV anche tagliandosi con lame o lamette usate da altri. Non so da quale lontano tugurio del mio cervello venne l’idea, ma un mese prima mi ero tagliato con un coltellino di ignota provenienza. Facendo due più due, il mio cervello bacato aveva contratto l’HIV. Quindi telefonai al numero verde, chiedendo informazioni. Mi risero in faccia, ovviamente, ma questo non mi placò. Dovevo fare il test, e lo feci, pagando di tasca mia perchè di chiedere al mio dottore una impegnativa in tal senso non mi andava proprio. Ovviamente, il test era negativo e, se avesse potuto parlare, quel foglio di carta avrebbe anche scritto, dopo la dicitura “negativo”, anche la dicitura “sei un povero demente”.

Un’altra crisi ipocondriaca di carattere infettivo avvenne qualche anno fa, quando mi convinsi che avevo la scabbia. Ora non vi dico, per motivi di ovvia privacy, da chi potevo averla presa, nè chi, ancora più ipocondriaco di me, mi mise la pulce nel cervello, fatto sta che cominciai ad avvertire un fottuto prurito in ogni parte del corpo e che infine corsi in farmacia a chiedere un farmaco contro questa simpatica malattia. La farmacista mi guardò tradendo un lievo senso di disprezzo, infine mi diede queste potentissime fialette da spalmare sul corpo solo dopo essersi fatti una doccia. Allor dunque corsi a casa, feci una doccia, mi asciugai e cominciai a spalmare l’unguento miracoloso che avrebbe fatto razzia del maledetto parassita che, secondo il mio cervello in salmì, si nutriva in sottopelle di me. Arrivato a spalmare la lozione anche nelle parti intime, mi accorsi che il bagno schiuma non era del tutto andato via nel risciacquo, come accade a noi uomini talvolta nella zona – come chiamarla – sottotesticolare o scrotale. Sulle prime non ci feci caso, ma nel giro di dieci secondi sentii che i miei sacri pendenti stavano andando in fiamme. Una reazione tra farmaco e bagno schiuma mi stava evidentemente letteralmente arrostendo i coglioni, e le urla di dolore e le lacrime di sangue testimoniarono, in quel grigio giorno di ottobre, che la mia idiota paura di avere una malattia che non potevo assolutamente aver contratto, era giustamente punita dal dio della ragione con un brasato di testicoli, i miei, di cui ancora ricordo l’acceso colore rosso-peperone con venature verdastre. Leggi il seguito di questo post »


Bashir cerca una donna

17 aprile 2009

La stanza dove lavoro, al primo piano dello studio Cavaturaccioli, sembra uno strano incrocio tra un eremo e un loft. Larghi spazi, sedie vuote,  silenzio di tomba. Mentre dal piano di sotto arrivano le eco della battaglia in corso tra gli avvocati e i loro clienti che, quando si tratta di immigrati, spesso si portano all’appuntamento tutta la famiglia fino al terzo grado, vestita per l’occasione come se andassero ad un matrimonio, con i bambini che svicolano sotto le gambe della segretaria impegnata a respingere le avance degli adulti che ci provano nel modo più spudorato che abbia mai visto.

Nel mio studio, invece, si sente solo il ticchettìo delle tastiere e il rumore del pendolo dell’orologio (se ce ne fosse uno, ma insomma rende l’idea). Solitamente non mi occupo direttamente di clienti, non vado in tribunale. Sono un leguleio asettico e sterilizzato (non in tutti i sensi, cristo). Non ho contatti con la gente, passo il tempo in solitudine a scrivere atti, a scartabellare sui codici e sulle raccolte di giurisprudenza. Devo produrre chili di carta, sono pagato a peso. Dello studio sono il teorico, il ghost writer, il consulente. Non sono un grande intrattenitore di clienti, e anzi preferisco non sapere chi sono, perchè c’è una buona probabilità, conoscendo il mio carattere, che mi stiano sulle palle, e poi scrivere un atto in loro favore mi risulterebbe ancor più difficile. Quando da sotto mi chiamano per dirmi – ed è accaduto – che il tal dei tali che ha vinto la causa vorrebbe ringraziarmi di persona, mi invento una scusa. Mi seccherebbe alquanto constatare che ho salvato la ghirba ad uno stronzo qualunque.

Bashir cerca un asilo

Ecco dunque che quando un cliente fa capoccella nel mio stanzone, è perchè ha sbagliato piano. Ma non l’altro giorno. Entra nel mio studio un omino basso e tarchiato. Vuole chiedere l’asilo politico, è pakistano. Dimostra vent’anni in più dei trentasei che si trascina. Carnagione più che olivastra, capelli nerissimi che gli scendono in faccia come una sorta di preterintenzionale emo un po’ in là con gli anni. Giubbotto di pelle, jeans, scarpe messe malaccio. E’ un caso di cui deve occuparsi il mio collega con cui divido la stanza, che invece è un grande praticone sempre lì a fare telefonate ai clienti, a blandirli, a minacciarli, a procacciarsene altri.

Lo straniero si chiama Bashir, si siede, è tranquillo, mi guarda e poi guarda per terra, mi guarda e poi guarda ancora per terra, si tiene le mani ad altezza pacco, ritto sulla schiena comunque piegata da una evidente cifosi. Attende che il mio collega presti attenzione, non pare avere fretta. Quello che segue è un dialogo che ripulisco dalla incomprensioni linguistiche e dalla durata biblica dello stesso, perchè Bashir parla una strana misticanza di lingua urdu  infarcita di improvvisi lemmi di derivazione inglese (tipo “tomoro” che sta per “tomorrow” “uaf”  che sta per “wife”) e tentativi storpianti di italianizzare il tutto. Se non ti viene l’emicrania parlando con Bashir, puoi sopportare anche un concerto di un gansta-rapper. Leggi il seguito di questo post »


Non siamo noi i cattivi

4 febbraio 2009

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Mi sono fuso le meningi per due ore su un fascicolo senza venirne a capo. Quattro codici gettati sulla scrivania, 18 pagine aperte simultaneamente su internet, fotocopie di sentenze, due stralci di dottrina. Due o tre tazzine di caffè sparse. Ma il foglio di scrittura di openoffice rimane bianco. Basta. Vado dal capoccia, lui saprà illuminarmi.

Toc Toc.

Avanti.

Ciao capoccia, volevo chiederti una cosa sul ricorso di Tizio. Per me francamente non ci sono grandi margini di manovra, il provvedimento mi pare ineccepibile.

Si, effettivamente è messo molto male. Vedi che puoi fare.

Ehm, no. Non è questo il punto. E’ che non vedo proprio in che modo possa saltar fuori un ricorso. Cioè, non c’è nulla a cui appigliarsi, nemmeno stronzatine piccole piccole.

Tranquillo, tu scrivi qualcosa, non preoccuparti se non esce una cosa che regge in giudizio.

Mi fermo. Mi secca quando non mi si capisce, io parlo chiaro, parlo poco ma parlo chiaro.

Capoccia, ma non sarebbe più semplice e meno contorto dire al cliente che sto ricorso non lo vince manco per il cazzo, anzichè fammi scrivere inutilmente fogli e fogli di minchiate su cui il giudice al più appunterà le sue caccole?

Il capoccia finalmente mi degna di attenzione. Il suo viso si illumina di un sorriso sornione ma ben disposto.

Ti spiego una cosa. Te la spiego subito perchè stai prendendo un granchio che tutti all’inizio prendono: se credi che noi avvocati cattivoni sforniamo atti e fomentiamo processi inutili raggirando i poveri clienti, sei fuori strada. E credimi, di molto. E’ esattamente il contrario: il cliente, il cliente italiano medio intendo dire, vuole che tu faccia il ricorso. Anche se non ci sono possibilità, anche se sa di avere torto marcio, lui non accetta di rinunciare, di non tentare la sorte. Lui vede la giustizia come una roulette a volte mal funzionante, che magari può dargli ragione. E comunque ha voglia di menare le mani anche quando non ha ragione.

Si ferma. Mi guarda. Continua.

Se tu dici a Tizio che  è inutile fare ricorso perchè è spacciato, Tizio non andrà a casa orgoglioso del proprio onesto avvocato. No. Tizio andrà da un altro avvocato, e poi da un altro, e poi da un altro ancora, finchè non troverà quello che gli scrive quel cazzo di ricorso. Lui vuole il ricorso, non vuole vincerlo. O meglio, lo vuole, ma è secondario, si vedrà dopo. Io ormai ho rinunciato a convincere i clienti che sono degli idioti, quando vogliono spendere soldi e tempo in qualcosa che loro stessi sanno che andrà in vacca al 110%. Ho altro da fare che perdere tempo con gli stupidi.

Si ferma. Mi guarda. Continua.

Il nostro ruolo molto più spesso è quello, non so,  di assistenti sociali. Vengono da noi disperati, frustrati, incazzati, con cazzi in culo grossi quanto una casa, una vita distrutta, debiti e scelte sbagliate, e vogliono che mettiamo su carta la loro voglia di esser soddisfatti, come nei duelli di un tempo. Vogliono soddisfazione, ecco tutto. Non l’avranno, ma il guanto di sfida lo lanciano. E noi siamo lì, a fare loro da testimoni, complici, consiglieri della loro sfida. Possiamo limitarci a timide obiezioni, ma altro non possiamo fare.

Si ferma. Mi guarda. Conclude.

Ecco perchè devi fare il ricorso. Perchè non siamo noi i cattivi, Paperoga.

Io sono letteralmente sulle corde. Credevo di andare là a sfoggiare la mia deontologia, la mia etica, una certa serietà, e mi ritrovo suonato da argomenti che sono perfettamente razionali e allo stesso tempo di una paraculaggine madornale. Sconfitto, cedo su tutta la linea.

Ok. Vado a farlo. Vediamo che posso inventarmi.

Mi giro, apro la porta, ma mi richiama.

Ricordatelo. Non siamo noi i cattivi.

Lo guardo e mi sembra di avere davanti un ipnotista col suo pendolo che cerca di farmi ripetere quella frase, affinchè io la introietti e la ripeta all’infinito. O quelli che si mettono davanti alla gabbia del pappagallo per fargli ripetere “cacca culo figa”.

Non siamo noi i cattivi. Non siamo noi i cattivi. Non siamo noi i cattivi. Non siamo noi i cattivi.

Vabbè, non siamo i cattivi.

Però non ho capito ancora bene chi siamo.


Il vero incubo non è lavorare oggi

13 gennaio 2009

Il primo giorno di lavoro non è stato tragico. Si, insomma, non sapevo cosa fare, dove chiedere, a chi rivolgermi, come muovermi, cosa dire, come mascherare la mia totale impreparazione e la mia assoluta infelicità di essere lì, ma tutto sommato, è andata bene.

Certo, ho occupato il posto in stanza con un fumatore che prima era solo e libero di sfumacchiare quando voleva, e che ha capito subito, da una risposta cortese ma secca e decisa, che non amo sentire il cancro presenziare in una stanza con i suoi anelli di fumo come un Casper cattivo che aleggia sulla mia aspettativa di vita. Ma vabbuò, un pericoloso nemico in più annidato in studio, che sarà mai.

Vabbè, c’è poi da dire che le condizioni propostemi al momento del colloquio sono risultate solo un’esca per farmi venire lì e scoprire che ci sarà da lavorare il doppio, ma non è poi che uno ci rimane male per questo.

L’unico momento reale di difficoltà l’ho avuto alla fine della giornata, quando sono andato a salutare il capoccia.

Paperoga: “Vado, ho finito quella cosa.”

Capoccia: “Ok, beh, è andata bene , non trovi?”

Paperoga: “Ma si, devo dire di si.”

Capoccia: “A domani, allora.”

Domani?

Come domani?

Esiste un domani?

Non è finita qui?

Cioè, il culo che mi sono fatto oggi me lo devo fare anche domani?

E dopodomani? Dovrò anche venire dopodomani per caso?

E la settimana prossima?

Paperoga: “Certo…a domani…glab.”

Ecco dov’è l’inchiappettata del lavoro. Che lo devi fare anche il giorno dopo. E l’altro ancora. Non l’avevo considerato, davvero. Cioè, non è che credevo davvero di dover lavorare un solo giorno. Ma non avevo fatto i conti con la spada di Damocle del “domani”. Mentre lemme lemme raggiungevo la stazione, consideravo da che quel momento anche i giorni della settimana riprendevano ad avere una forma e una consistenza diversa e quasi plastica. Ovvero, il lunedì è differente dal venerdì, cose del genere. Cose che voi tutti considerate ovvie, ma credetemi, per un esperto di “orizzontologia chiappale” come me, uno che sino ad oggi si preoccupava al massimo dell’id basso di emule,  tutto ciò mi catapulta d’improvviso agli orribili tempi di grembiule e cartella e oltre. Era dai tempi di scuola che non consideravo i giorni della settimana, il loro lento scalare verso il sabato, e così via. Insomma, la fatica di finire la settimana. Nella mia precedente vita, fino a ieri cazzo, e che adesso mi sembra tristemente lontana, ogni giorno valeva l’altro, tanto non combinavo una mazza nè prima nè dopo. Adesso, mi sembra di esser tornato con lo zaino in spalla la mattina presto e col terrore dell’interrogazione di greco domani.

Domani, perdio.

Me l’ero scordata, l’ansia di domani.