Neverending Bob

27 giugno 2010

Quando circa dieci anni fa ebbi una illuminazione musicale sulla strada di Duluth, e di colpo scoprii Bob Dylan, fu come succede spesso quando mi innamoro delle cose: una cotta pazzesca, un vorace recupero di quel che mi ero perso in passato, e l’esaltazione di una delle mie capacità più nascoste e meno usate, quella di diventare un esperto di qualcosa in brevissimo tempo (ma mi capita solo con le minchiate, mai che mi serva a qualcosa..). Rimaneva solo da ritagliarmi l’occasione di vederlo dal vivo. A quei tempi Bob stava per compiere 60 anni, e qualcosa in me sussurrava che era meglio che mi sbrigassi, perchè non mi fidavo troppo delle capacità di resistere al tempo di uno che della vita aveva succhiato il midollo e non solo quello.

Venne dunque a Brescia nel 2001 ed io mi infilai in macchina e mi fiondai nella città lombarda. A quei tempi non esistevano manco le mappe di google, dunque non volendo parcheggiare a pagamento lasciai la macchina in un posto che ritenevo periferico ma non troppo. Il risultato, disastroso, fu che ci vollero 3 km a piedi per raggiungere Piazza Duomo, e che al mio ritorno mi ritrovai la macchina bella che svuotata di chiavi ed autoradio, dato il luogo isolato e bronxesco in cui l’avevo mollata. Diverse madonnine di civitavecchia piansero per quel che tirai di bestemmie.

Ma il concerto fu meraviglioso. A parte che, per una botta di culo, gli organizzatori radunarono una ventina di giovani (a quei tempi lo ero anch’io) che avevano il posto in piedi lontano dal palco, per ficcarli in posti a sedere praticamente incollati al culo secco di Bob. Volevano che facessimo casino, che applaudissimo, perchè Bob odiava una platea gelida di adulti, ci dissero.Quando entrò vidi quel folletto invecchiato con le gambe minute che ciondolavano al ritmo delle pennate della chitarra, e la voce, dio la voce, ecco tanto per capirci la voce di Dylan è la voce che avrebbe dio nel giorno del giudizio. Potente, graffiante, carta vetrata purissima, implacabile e capace di guizzi di dolcezza quando è in forma.

A distanza di quasi dieci anni da quella serata di luglio, e dopo tanti altri concerti in giro per ville venete, palazzetti milanesi e bolognesi infine piazze pistoiesi, ecco che Dylan mi usa la cortesia di suonare nel parco di Parmaperopoli, a due passi da casa.

E’ una serata fresca e ventosa, si vedono gli appennini dai ponti del fiume che pare di stare in un’altra città. Arrivo in bici da casa agghindato per le occasioni di prestigio, ovvero maglietta e pantaloncini come al solito. Sul Ponte delle Nutrie, punto di ingresso nel parco, ci sono un paio di fricchettoni che suonano la chitarra abbozzando biechi giri di blues e chiedono qualche spiccio. Mi ha sempre stupito trovare ai concerti di Dylan quel che ti aspetteresti più che altro per mancanza di fantasia, ovvero un seguito di hippie anni ’60 col loro furgoncino colorato col segno della pace. E invece ci sono davvero, olandesi, inglesi, francesi, uomini bellissimi con la barba bianca e donne che ventanni fa dovevano essere delle semidee, quadretti anacronistici ma in modo piacevole, è come vedere i miei genitori così come mi sarebbe piaciuto che invecchiassero, sereni, distesi in volto, contenti di essere dove sono. Leggi il seguito di questo post »


Bob Dylan e la teoria della ricettività

3 dicembre 2009
Festeggio il 100esimo post di questo blog con un pezzo lunghissimo e assolutamente imbevuto di LSD, tra l’altro tarocco. Era solo per avvertirvi che siete ancora in tempo per astenervene.

Fino a ieri ritenevo che Bob Dylan non sarebbe mai venuto nel grassoccio paesello salentino dove sono cresciuto. Che diamine, era una probabilità così assurda che manco un pirla. Poi però il sogno di stanotte mi ha illuminato. Era un sogno così nitido da poter essere ritenuto addirittura premonitore. Probabilmente è così che andrà, e me lo dice anche il bollito misto che ho mangiato ieri sera e che ha accompagnato la mia digestione notturna.

Dunque succede che, come spesso accade, il sogno inizia ad un certo punto della storia, e tu non sai com’è che si è arrivati già lì. Il punto è che un fans italiano di Bob Dylan, di quelli duri e puri che lo seguono anche in tour al cesso, ha scritto l’ennesimo libro sul menestrello di Duluth. Vuole presentarlo in giro per l’Italia e fatto sta che il programma prevede che venga presentato in una sera di fine agosto proprio nel comune salentino in cui ho passato la giovinezza. E, colpo di scena, sarà presente Bob Dylan in persona. Ora dunque immaginatevi l’emozione mia e di qualche altro salentino.

Viene coinvolto il sindaco, gli si dice che è un evento importante, che è quasi madornale che si verifichi in un postaccio come questo, e quindi bisogna pubblicizzarlo per bene. Il sindaco, un baffuto ometto bello in carne di stampo boteriano, si vede che non è proprio un appassionato di rock anni ’60 e che preferisce ascoltare ancora gli Homo Sapiens, però è uno furbo che sa sfruttare le occasioni. Quindi dice che organizza tutto lui.

La sera si apre con una cena in un ristorante del luogo, una sorta di anticipo della presentazione che avverrà dopo in pubblico. Alla cena ci sono l’autore del libro, Bob Dylan, il sindaco con la fascia, il segretario comunale e tutta la giunta, qualche fan imbucato, ed io. Una quindicina di persone in tutto. Una cena un po’ triste, nessuno parla, Bob Dylan è senza la sua band, e mangia con buona lena il suo piatto di pezzetti di cavallo al sugo piccante, dice che gli ricordano il cibo messicano, parla con la bocca piena e tutta sporca di sugo, si bacia la punta delle dita unite e poi apre la mano in un gesto come dire “uonderful!“. Poi trinca un bicchiere intero di salice salentino, decantandone la struttura e il retrosapore zuccherino. Il sindaco guarda di sottecchi sto ubriacone messo anche male fisicamente, e fa una smorfia dubbiosa verso la giunta.

A fine cena ci si trasferisce tutti vicino alla ferrovia, in uno spiazzo di cemento alla periferia del paese inframmezzato da buche quadrangolari di terriccio che accolgono alberi segaligni e senza foglie tenuti su da mazze di scopa come sostegni. Per terra è tutto un mulinare di carte sporche e merde di cane, e domina sullo slargo una roulotte di ristoratori da strada, che con luci stroboscopiche segnalano la presenza di panini con la servola, con la salsiccia, hamburger e patatine fritte. Il ristoratore, su richiesta del sindaco, ha predisposto le sedie di plastica bianca nello spiazzo, con un tavolo al centro, proprio davanti alla roulotte, con sopra una tovaglietta di carta tenuta ferma da due birre canadesi ai lati. Il posto è male illuminato da lampioni troppo alti e di una fioca luce bianca, per fortuna ci pensa la roulotte coi suoi colori accesi e spumeggianti a fare da occhio di bue.

All’incontro, però, c’è ben poca gente. Insomma, le sedie si riempiono a stento, c’è qualche coppia di ragazzi, marito e moglie con bambino in carrozzina, quattro vecchi, cinque o sei fans tra cui io, la giunta e il segretario comunale. Oltre al sindaco, sempre più imbarazzato, seduto accanto a Bob Dylan al tavolo assieme all’autore del libro.

Inizia l’incontro. E devo ammettere pure io, che sono un appassionato, che c’è da stracciarsi le palle dalla noia. Si parla di metatesto, di influenze  freudiane, di citazionismo biblico. Lo stesso Dylan pare poco interessato, e infatti si beve la sua canadese direttamente a canna trangugiando un po’ di olive ascolane messe a disposizione dal chiosco. Il sindaco tradisce l’insofferenza e sbuffa, si guarda attorno, c’è pochissima gente, un flop totale, una figura di merda colossale. Si agita, incastrato nella sedia, guarda severamente il segretario comunale e poi la giunta, come se la colpa fosse di tutti tranne che la sua.

Poi l’autore del libro imbraccia una chitarra, e riesce a far cantare Dylan sulle note di “4Th Time Around”, almeno per un paio di strofe. L’atmosfera non si scalda. Il sindaco anzi, si gira verso uno di noi e fa: “Ma sta canzune non è delli Bitols?”, e uno dei più secchioni gli spiega che no, non è Norvegian Wood, anzi, è Lennon che ha copiato questa canzone. Il sindaco risponde con una smorfia annoiata a metà tra “addirittura” e “e sti gran cazzi”.

Nulla, qualcuno si alza dalla sedia e se ne va, alcuni si distraggono guardando la televisione appesa alla roulotte che programma una partita di Coppa Italia. Il più grande happening culturale della storia di questo paesone si sta trasformando in una tragedia. Poi la parola passa a Bob Dylan. Leggi il seguito di questo post »