Scene quotidiane di un campeggio familiare

27 luglio 2015

camping terrore

Memore dei suoi ruggenti anni di gioventù (quando imperversava nei campeggi pugliesi e mieteva intere piantagioni di maschi) Sunofyork quest’anno ha insistito perchè tutti e tre, marito moglie e piccola erede al guinzaglio, si andasse nei luoghi della sua giovinezza, per la precisione un campeggio per famiglie nel Gargano.
Da parte mia, ho sempre avuto una avversione preconcetta per i campeggi organizzati, sicuramente provocata dallo snobismo di ventanni passati da scout a campeggiare in modo selvaggio e libero e a concepire in quell’unica forma ribelle e probabilmente illegale il vero contatto con la natura.
Ma ho quarantanni da poco suonati, e ormai di questa e altre stronzate di convinzioni e paturnie ho fatto un bel fascio e le ho spedite in cantina, dunque ho detto sì alla mugghiera e siamo partiti destinazione Gargano, approfittando di una roulotte messa a disposizione dai munifici suoceri.
Il campeggio individuato era (da me) chiamato Feudo Crucco, per l’alta e inquietante percentuale di (civilissimi) villeggianti provenienti dalla Tedeschia, immerso nel verde delle pinete e con il mare talmente a portata di mano che se la sera avessi voluto liberarmi dell’urina in eccesso davanti alla nostra piazzola probabilmente avrei potuto centrare, con uno sforzo suppletivo vescicale, le chiare fresche e dolci acque che stavano di sotto.
La roulotte offriva comodità anguste ma sufficienti, due letti e un tetto robusto sulla testa. Conoscendo le mie capacità pratiche e la mia facilità di utilizzo di cose mai viste prima, tipo una roulotte, i suoceri si sono scapicollati ad arrivare in Gargano affrontando le code estive, il caldo lercio e il percorso rally tipico della litoranea garganica, pur di arrivare prima di me e sistemare la roulotte prima che facessi danni irreparabili.
Così, appena arrivati e con la roulotte montata di tutto punto dal parentame, abbiamo cominciato la nostra settimana da campeggiatori. Una settimana costellata da alcuni punti salienti che in modo conciso vado testè a descrivere in questi sotto capitoli.

NO PLACE FOR ELEGANCE
Devo dire che il campeggio mi ha subito conquistato perchè è un posto frequentato da gente assolutamente scazzata che veste informale dalla mattina alla sera. In campeggio non devi mai preoccuparti di quello che hai indosso, letteralmente. Metà della gente perennemente in ciabatte e costume a qualsiasi ora, o vestiti di abiti a caso indossati probabilmente al buio. Ho visto diversi bimbi nudi aggirarsi come membri di una strana tribù equatoriale, persino un dodicenne in bici con tanto di inquietante pisellone di fuori. Ovviamente, ça va sans dire, non me lo sono fatto ripetere due volte, ed anch’io vagavo per il campeggio quasi sempre in costume da bagno (intendo un bel succinto costume nero, non il boxer) e ciabatte, la sera al massimo mettevo una maglietta (sempre la stessa) ma non i pantaloncini, sicchè sembravo nudo dalla cinta in giù. Altre volte mettevo i pantaloncini ascellari ma non la maglietta. Unico accessorio per il mio personalissimo outfit, un bel rotolo di carta igienica al posto del borsello. Perchè? Leggere sotto.

NON E’ UN POSTO PER STITICI
Ahimè, e devo dire che me l’aspettavo, il campeggio risveglia la stipsi dormiente di decine e decine di campeggiatori, e nel mio caso si fa anche poca fatica, essendo la stitichezza mia non gradita compagna del quotidiano da un buon quarantennio. Magari è solo una questione psicologica, o magari pratico-logistica, fatto sta che non avere un bagno personale e sopratutto a portata di chiappa ha fatto si che per buona parte della settimana io abbia vagato affranto con un rotolo di carta igienica alla ricerca dello stimolo perduto. Per chi di voi si stesse facendo una risata, e per chi di voi è in possesso di un intestino che si srotola a comando una o due volte al giorno scosso come manco un pitone indiano, beh, non potete capire fino in fondo. Noi con l’intestino pigro viviamo nell’attesa diuturna di uno stimolo, di un segnale divino (tipo il padre di Portnoy nel libro di Roth, per chi l’avesse letto). Spesso accade che per giorni interi nulla si faccia sentire. Ma quando arriva il momento, allora bisogna schizzare in bagno come sparati da un cannone, avendo però l’accortezza di non muoversi troppo col bacino, perchè il nostro intestino è in equilibrio come su un crepaccio: una mossa sbagliata e tutto tornerà fermo.

Adesso prendete uno stitico e mettetelo in campeggio. Arriva lo stimolo e il bagno è a 150 metri. Comincia la transumanza, 3 minuti di passeggiata rapida ma senza correre, tipo marcia olimpica, si arriva in bagno, si pulisce la tazza, si improvvisa un copriwater, ci si siede e poi? E poi un bel niente. Silenzio, come se fossimo da soli nel deserto. Quindi a rivestirsi, si esce dal bagno, ci si riavvia alla roulotte, tutto questo per tornare al bagno dopo 5 o 30 o 50 minuti, sempre con lo stesso effetto. Per noi stitici lo stimolo è un attimo fuggente. Carpe stronzum. Un bagno lontano e scomodo significa che nel frattempo torna la bassa marea, e il campeggio prosegue con una bella panza gonfia e un senso di pesantezza poco simpatici. Per ovviare al problema ho fatto fuori metà del raccolto 2015 di prugne secche californiane, ma non è servito. Solo una piccola purghetta ha risolto parzialmente il problema ed ha sventrato un intestino che pareva corazzato di piombo. Nel frattempo anche la bimba (che pare aver ereditato, oltre al gruppo sanguigno e a molti tratti somatici, anche tutte le nevrosi paterne) soffriva di stitichezza. Immaginate che bella settimana per Sunofyork, circondata dalla stipsi, a parlare col marito di stimoli e puzzette e a cercare di tirar fuori la cacca della bimba con due pinze… Leggi il seguito di questo post »


Shiny happy people

18 gennaio 2015

Ho scazzato totalmente la promessa di un post al mese, lo ammetto. E’ che sono stati mesi tosti fatti di traslochi e dissanguamenti bancari. Potrei scriverci una decina di post sopra, ma non ne ho il tempo. A volte scrivo su questo blog http://gallinevolanti.com/lettura-papa-figlia/, ma non posso dire certo no alla storica marmaglia reggiana dei bei tempi andati. Per il resto, lavoro, mangio, gioco ai videogames in notturna, e quando sono a casa c’è un fitto programma di balli con mia figlia davanti ai video di youtube.

Attualmente, i più gettonati sono questo:

e questo

L’ultima coreografia tra l’altro è tostissima, pertanto mi perdonerete dell’assenza. Quando l’avremo imparata a dovere, forse vi posterò un bel video. Ma non so se vi conviene…

A presto.


La damigella del diavolo

20 settembre 2014

me

 

Due nostri amici si sposano. Organizzano un matrimonio in una bella chiesa e il ricevimento in una splendida masseria. Prevedono tutto nel dettaglio, scelgono ogni particolare con gusto e attenzione. Ma dopo mesi di preparazione certosina perdono un po’ di lucidità, e fanno un errore mortale: chiedono che nostra figlia faccia da damigella e porti gli anelli in chiesa nel momento della sacra unione. Fatal error.

Il pomeriggio già era partito storto. Arrivati nel paesotto pugliese, manco il tempo di scendere dalla macchina, arriva un temporale da tregenda, con tanto di grandinata di sassi. In macchina cerchiamo di tenere ferma la bimba che si dimena tra il sedile davanti e di dietro aggrappandosi a volante e cambio, tra un piede in bocca al padre e una gomitata sulla tempia alla madre.

Il temporale finisce. Si entra in chiesa. Il problema è: come riuscire a farla stare buona in chiesa per un’ora e mezza, dovendo tra l’altro occupare i primi posti dopo i parenti prossimi? Qualcosa ci viene incontro. Ci sono musicisti che suonano durante la messa, un organo e un violino conquistano la bimba e durante l’esecuzione lei rimane in piedi, ritta e silenziosa ad ammirare lo spettacolo. Quando la musica finisce, cominciano i guai. Anzitutto la bimba non ne vuole sapere, e chiede che i musicisti continuino a suonare: “ANCOA!!! BAVI!!! ANCOA!!! Poi, siccome non è accontentata, comincia a vagare alla ricerca di divertimento. Noi cerchiamo di tenerla ferma con mille ammennicoli (ventagli, libretti della messa, giocattoli portati a posta), poi ricomincia la musica e lei di nuovo ritta in piedi, ma quando finisce decide di vagare inquieta per la chiesa. Mi metto al suo seguito come un bodyguard. La gente la guarda camminare vestita come un confetto e le sorride, ma non sa quale potenziale distruttivo nasconda il suo bel faccino da angioletto. Si avvicina alle candele votive delle offerte, chiede di essere presa in braccio. Io le faccio vedere  le candele, sono del tipo elettrico che si accende con la levetta, e le spiego che la gente mette i soldi, accendo la candela e dice una preghiera, ma mentre sto parlando lei sta accendendo e spegnendo di tutto, fulminandone una, quasi staccando una levetta dall’altra, ignorando le preghiere dei fedeli e i soldi pagati per poterli esprimere. La allontano per evitare un corto circuito, e manco la sposto che si sta già gettando a pesce dentro l’acquasantiera. La metto per terra, siamo in fondo alla navata, e si dirige verso il confessionale. Anzi, ci entra direttamente dentro. Dalla parte del prete. Per farla uscire ci metto mezzo minuto, ma alla fine è fuori. Giusto in tempo per notare un tavolino con delle ampolle di acqua e vino e un po’ di pane. Per i cristiani è l’offertorio che va benedetto dal prete, per lei è solo un tavolo da rivoltare. Per mezzo secondo evito il disastro.

Arriva il momento di portare gli anelli. Le fedi si trovano su un cuscino che la bimba deve porgere al prete o agli sposi, ora non ricordo. Fatto sta che lei guarda sto cuscinetto, guarda il prete, guarda sua madre, e butta per terra cuscino ed anelli e se ne va a sedersi ai piedi dell’altare. Sunofyork prende gli anelli, li porge a chi deve porgerli, chiede scusa a sposi, testimoni, prete e chierichetti, e torna al suo posto. La bimba vaga vicino all’altare, rischiando di far inciampare fotografi e sacrestano, e quest’ultimo manda a me padre uno sguardo da clint eastwood che conferma la massima evangelica “lasciate che i bambini vengano a me”. Ma non rompano i coglioni in chiesa.

Però alla fine il matrimonio è celebrato. Nel frattempo la bimba passa il tempo a colorare dei figlio coi pastelli a cera, ma comincia a colorare anche i banchi ed io a pulire con le salviettine come una colf. Usciamo dalla chiesa e prendiamo il riso per la solita lapidazione rituale. ma la bimba non può aspettare. Comincia a lanciarlo dentro la chiesa, con la conseguenza che diversi invitati rischiano di scivolare sul marmo e finire il pomeriggio al pronto soccorso. Le sottraggo il riso e scoppia in un pianto abissale. Le ridò il riso e me lo mette nella camicia. Gli sposi escono. Dalla furia repressa tiro il riso a chiunque.

Rientriamo in macchina. Ho perso un paio di chili, ho il vestito sporco di colori a cera, ed ho mezzo chilo di riso dentro ai pantaloni.

Ma sono solo le 18, e manca ancora l’intero ricevimento. La prossima volta che la vogliono come damigella la sedo come un cavallo.

 


Appunti a Mondiale in corso

4 luglio 2014

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Questo Mondiale di calcio sta scorrendo in un’atmosfera in parte surreale. Il periferico eremo bolognese in cui viviamo fa sì che la visione delle partite, di solito massimo momento di convivialità alcolica con fratelli ed amici, sia stata da me fruita nella più completa solitudine.
Italia Inghilterra, complice l’orario notturno, è stata vista con Sunofyork a volume basso e rigorosamente seduti sul divano, perchè la bimba dormiva e non potevamo interrompere un miracolo come quello. Io sono abituato a vedere le partite della Nazionale e della Juve in piedi, zompando, smoccolando, ruttando, scattando verso il televisore o mimando il gesto atletico che il giocatore avrebbe dovuto fare, producendomi in beceri insulti razzisti o in cori ultrà pieni di parolacce rimate.
Vedere la partita seduto e composto ha fatto sì che io dovessi sfogare la mia ansia in altri modi, accanendomi sulla consorte al mio fianco, oggetto di calcetti, pizzicotti, strette al braccio al limite della frattura, e frasi sconnesse, isteriche, urlate nel silenzio. Ai due gol dell’Italia, non potendo seguire una fragorosa esultanza, mi sono fiondato insensatamente a mordere il braccio mogliesco come si fosse una costina alla brace.
Le due successive partite, giocate in pieno pomeriggio, vedevano presente anche l’erede che, noncurante dell’importanza dell’evento televisivo nazionale, reclamava attenzioni che solo in parte le venivano assicurate. La tristezza delle due sconfitte e la noia mortale dello spettacolo offerto ha mitigato la stizza del dover vedere la partita inseguendo la bimba nelle sue peregrinazioni a caccia di un serio infortunio domestico, costruendo torri con le costruzioni alla cieca, con gli occhi a palla sullo schermo, o cantando canzoni dello zecchino senza poter sfogare l’istinto barbaro e primordiale che solo il calcio richiama dal subconscio. Leggi il seguito di questo post »


Trekking vegan style

24 giugno 2014

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Nostalgici dei bei tempi andati che furono, quando adolescenti con foulard al collo zompettavamo per le montagne zaino in spalla, ricapita ogni tanto che noi amici di sempre ci ritroviamo possibilmente una volta l’anno, per camminare in montagna giusto il tempo di un week end.
Il tempo ci ha portato in dote figli ed impegni lavorativi, oppure si è divertito a sballottarci chi qua e chi là, e qualcuno addirittura si ritrovano esiliato oltre oceano, ma anche quest’anno siamo riusciti a ritagliarci una due giorni di salite, aria buona e schiena a pezzi.
Certo, persi per strada Il Merda, disperso nel contado di Washington DC, e Il Dottor Kildare, impegnato in un massacrante turno di segaggio ossa in pronto soccorso, siamo rimasti in tre: il sottoscritto, Gastone e Vlad.
Sobbarcatami l’organizzazione logistica, ovvero il dove si va, quando si va, come ci si arriva e quando si torna, ho lasciato a Gastone la restante parte inerente il recupero di una tenda e la spesa per la cena davanti al fuoco della sera. E qui mal me ne incolse.
Perchè il buon Gastone, per per quasi quarantanni della sua vita ha divorato carne di qualunque specie animale commestibile, protetta o non protetta che fosse, addentando bancali di costate di manzo ogni volta come se fosse l’ultima, ripulendo le ossa delle braciole o dei fusi di pollo come manco i cani, sprofondando le ganasce fin dentro le pentole di carne di cavallo dal sugo riemergendone sporco, felice e mai del tutto sazio, beh, quest’uomo qui è diventato vegetariano, con spiccata tendenza al veganesimo.
Ora, quando di solito si fanno scelte epocali come queste, c’è normalmente di mezzo una donna. E siccome le uniche scelte epocali di Gastone, nella sua gattesca esistenza, sono sempre uscite fuori dalla sovrana influenza che nella sua vita hanno avuto le donne che si voleva fare, o che si è fatto, o che si è fatto più volte, o con cui si è fidanzato, o con cui si è sposato, o con cui ha avuto dei figli, è stato abbastanza facile riconoscere lo stampino di sua moglie nella sua scelta di rinunciare a mangiare carne.
La Milanese, è di lei che stiamo parlando, lentamente ha abbandonato molteplici fonti di alimentazione animali, e probabilmente mentre sto scrivendo è arrivata fino alla variante in cui si filtra persino l’acqua per evitare di mangiare microorganismi.
Il suo fido marito l’ha seguita, in più maturando con gli anni tutta una serie di fastidi alimentari che rendono oggi Gastone, uno che pochi anni fa si mangiava persino la carta delle merendine, un personaggio difficile da rifocillare, se lo si ospita a casa propria.
E’ in questo quadro di cose che Gastone assieme a Vlad si presenta a casa mia una sera bolognese di inizio giugno, proveniente da Milano. La spesa, dice, l’ha fatta lui, mangeremo davanti al fuoco solo verdure grigliate, fagioli, con gran finale di pannocchie. Io e Vlad ci guardiamo in faccia, e già presentiamo i morsi della fame in aperta montagna.
Per la serata bolognese ho preparato una cena fredda, rigorosamente senza carne, per chi volesse approfittarne. Gastone ha fame, e si fionda sulla pasta alla crudaiola che ho preparato, ma scartando minuziosamente tutti i pomodori.
– Perchè non li mangi?
– Perchè la sera non riesco a digerirli.
– Ah. Vabè, vuoi un po’ di vino?
– No, non bevo vino da due anni.
– Come!! E da dove salta fuori sta storia? Ma se prima bevevi direttamente dalla bottiglia come i clochard.
– Mi fa venire la gastrite.
– Andiamo bene. Va be, per domattina ti ho preso il latte per colazione, ci sono anche le Macine.
– No, non bevo più latte da tempo.
– Ziocane, ma se prima bevevi un litro di latte a colazione assieme a mezzo chilo di biscotti dentro, e ingollavi sto preparato che pareva calcina a presa rapida!!
– Non lo digerisco, se hai dei cereali mangio quelli.
– Da soli?
– No ci metto del caffè e dell’acqua in una tazza.
– Dell’acqua?
– Si.
– Cristosanto.

L’indomani si parte in macchina alla volta della località appenninica in cui andremo a camminare.
– Preso tutto?
– Si, Vlad, prendi la busta con dentro la spesa per stasera.
– Quale busta, Gastone? L’hai presa tu la busta.
– No, io ho preso lo zaino, la busta col cibo che era in treno sul bagagliaio..
– ….
– Non dirmi che abbiamo dimenticato in treno la busta con dentro 40 euro di spesa biologica!! No, puttana eva, no!!
Gastone sarà pure diventato vegetariano, ma non ha perso il gusto per la profanazione divina, considerato che, nella mezz’ora seguita alla terribile scoperta di essersi fumato una spesa bio-vegan delle bellezza di 40 euro, masticherà macrobiotiche bestemmie come fossero chewingum. Leggi il seguito di questo post »


Un altro Ponte dei Morti viventi

16 novembre 2013
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Il recente ponte del 1 novembre doveva essere, nelle intenzioni, una bella riunione di una famiglia che, dal Salento come dalla Spagna, conveniva in Emilia per una due giorni e mezzo di abbracci e baci tra figli, nipoti, zii, nonne, cognate, fratelli e nuore. Insomma, una sorta di “Festen” senza la villona in campagna e la denuncia di stupro/incesto a metà cena (ops, scusate lo spoiler, ma è un film di metà anni ’90, se non l’avete visto scazzatevi).
Ma non è andata proprio così. Diciamo che non ci è andata nemmeno lontanamente, così.
Perchè in quei due giorni e mezzo un oscuro maleficio ha lanciato sui protagonisti della reunion familiare una maledizione in piccole e venefiche dosi, sette atti,  piccole e profonde piaghe scagliate da chissà quale perversa divinità malvagia, che ha trasformato la gioiosa riunione in un miserabile lazzaretto.
1 Atto: Salta la riunione plenaria. (La piaga della bronchite).
Il programma ufficiale del ponte prevedeva che la famiglia si riunisse dapprima a Bologna, a casa nostra, e il giorno dopo a Parma, a casa di mio fratello Copeland con tanto di mugghiera e figlioletto.
Ma il programma è stravolto sin dal principio. La bimba ha la bronchite, ed è meglio evitare che il cuginetto entri a contatto col suo sapido catarro spalmato sui giocattoli come burro di noccioline. Mia madre e l’altro mio fratello Pfaff, dunque, si divideranno equamente per la via Emilia mentre cugino e cugina rimarranno alla distanza di sicurezza di 100 km. Bazzecole. Piccoli imprevisti. Ci stanno.
2 Atto: La quiete prima della tempesta.
Il 31 ottobre scorre placido in quel di Bologna. Arrivano mia madre e Pfaff, si coccolano la nipote, io e Sunofyork organizziamo un bel pranzo luculliano, si mangia, si beve, si rutta, e il pomeriggio scorre lento e sornione come solo d’autunno, a far giocare la bimba, a guardare la tv, a parlare del più e del meno.
La serata scorre via tra le scorribande della bimba, la pappa, il suo sonno impellente, la cena con gli avanzi del mezzodì, un film di orrore per omaggiare Halloween, e poi vado a letto anche io.
3 Atto: la comparsa del Male. (La piaga della gastroenterite).
Durante la notte Sunofyork si agita nel letto, si alza più volte. Pare non stia bene.Intestino e stomaco stanno ballando la cucaracha. La mattina è un cencio con 38 di febbre. Pfaff parte per Parma per il concordato incontro con Copeland, mia madre rimane a Bologna per star dietro alla bimba, che viene accuratamente tenuta lontana dalla madre e, non essendovi abituata, è nervosa e sgusciante come una scolopendra. Per farla mangiare ci si mette il tempo record di 1 ora e venti minuti per un misero piatticello di pastina, e si batte il record mondiale di canzoni cantate (sfodero tutto il mio repertorio scout, saranno una sessantina di canzoni, e improvviso anche uno spettacolo teatrale). Alla fine la pastina rimasta è una colla fredda spatasciata sul piattino. Non la darei da mangiare manco ai cani.
Nel pomeriggio Sunofyork migliora, ma la febbre rimane così come rimane anche qualche scappata a gambe levate nel bagno. La bimba, sempre separata dalla madre, pare spiritata. Parla un linguaggio oscuro, e ci addita come una sacerdotessa avvertendoci di oscuri presagi. Ma noi non comprendiamo. Stolti e ignari, camminiamo verso il disastro.
4 Atto: il Male deflagra. 
Dopo cena mi addormento sul divano. Ho un po’ di pesantezza sullo stomaco, ma la cosa non mi preoccupa. Alle 23,30 vengo svegliato con scarso tatto con una pesante scrollata di spalle da parte di Sunofyork, che mi dice di sorvegliare la bimba dormiente  fin tanto che lei va in bagno.
Mi alzo instupidito, vado in camera da letto, e tempo qualche secondo sento chiaramente che sto per vomitare senza possibilità di errore. Mollo la bimba al suo destino e mi precipito in bagno. Occupato, c’è Sunofyork. Sbatto i pugni sulla porta come uno stalker, lei apre, la scanso, sto per vomitare le dico, chiudo la porta ma non arrivo al gabinetto. Mi fermo sul lavandino e tutto quello che ho mangiato, come in una sorta di rewind, si ripresenta così risalendo come un montacarichi dal mio stomaco. Dopo un minuto di mastodontici conati, mi accascio sul bidet, svuotato in senso fisicamente letterale. Non entro nei particolari, ma devo pulire un lavandino letteralmente ricoperto di cibo non digerito. L’operazione è orripilante, tant’è che vomito di nuovo, questa volta dallo schifo provato.
Torno a letto, sto meglio. Ma non è vero. Leggi il seguito di questo post »

Vite parallele a Lisbona

11 ottobre 2013
lisbona
IL VOLO
A. e M. sono una coppia appena sposata, senza figli, che parte per il viaggio di nozze a Lisbona. Il volo di linea  Bologna-Lisbona si rivela confortevole e rilassante.  Liberi dalla oppressione dei low-cost, senza file estenuanti per accaparrarsi i posti migliori, senza i controlli da gestapo sul peso e la dimensione del bagagli a mano, tre ore scorrono senza gli annunci pubblicitari e i tentativi di vendita di profumi, gratta e vinci, sigarette elettroniche e chissà quanti altri impicci. Viene servita la cena, e i due fanno il loro primo brindisi bevendo un rosso portoghese mentre l’aereo si avvicina al suolo lusitano.

A. e M. sono una coppia appena sposata, con una figlia di un anno, che parte a Lisbona per il viaggio di nozze. Il volo di linea Bologna- Lisbona si rivela l’inferno piombato a 20 mila metri di quota. La bimba pensa bene di dormire fino al momento del decollo, poi inizia il suo show della durata di 3 ore. Agganciata alla cintura della mamma, comincia a guardarsi attorno e a reclamare il suo diritto all’esplorazione del veivolo. Lo fa cominciando a scartabellare le istruzioni di emergenza, le riviste in portoghese, gettando tutto per terra, poi scalcia il sedile davanti cominciando a canticchiare uno strano motivetto salmodiante con cui affossa la minchia per quasi due ore ai viaggiatori che imprecano in silenzio. I due genitori cercano di far passare il tempo alla bimba in tutti i modi, cantano, recitano, accendono e spengono le luci e le prese d’aria, poi decidono di darle dei biscotti, con i quali la bimba, piuttosto che mangiarli, decide di pitturare ogni cosa che si trova a portata di mano, Decidono dunque di farla bere: il biberon con tappo salva-goccia, una volta aperto dal papà, per poco non esplode per effetto della pressione accumulata, per il 90% depositandosi in faccia al padre e per il 10% sui passeggeri davanti, i quali, vedendo acqua piovere dal cielo sono già pronti ad urlare in preda al panico.

Ma al peggio non c’è fine. Arriva il pranzo a bordo. Mentre la mamma mangia come una forsennata la sua lasagna a duemila gradi, il padre tiene la bimba che si contorce come un’odalisca, con una mano cerca di mangiare, con l’altra di evitare che la bimba si pianti un coltello in gola, e in tutto questo tiene incollato ai denti il bicchiere di plastica col vino bianco, sorseggiandolo con piccoli movimenti sussultori del collo.
Quando l’aereo atterra i due genitori sono ad un solo passo dal fare una strage motivata dalla ordinaria follia.
PRIMA CENA E PRIMA NOTTE A LISBONA
A e M, quelli senza figli, hanno affittato un appartamento nel centralissimo quartiere della Baixa. Fuori piove e decidono di mangiare un italianissimo piatto di pasta a casa. Nel relax del silenzio appena interrotto dalla pioggia di fuori, la stanchezza del viaggio si trasforma in desiderio, e non appena i piatti vengono vuotati i due si abbandonano nel letto matrimoniale, trombando come antiche divinità greche.
A e M con figlia al guinzaglio hanno affittato un appartamento nel centralissimo quartiere della Baixa. Fuori piove e decidono di mangiare un italianissimo piatto di pasta a casa. Non prima di aver fatto però mangiare la bimba che, essendo ormai passata l’ora di cena, si contorce in sguardi truci e sonorità ricche di astio. Nella casa manca un seggiolone. Questo significa che, per la sera e per tutti pranzi e le cene che verranno, la mamma imboccherà la bimba e il papà farà da sedia, tenendo ferma e impegnata la piccola anguilla che tutto vuol fare tranne che mangiare tranquilla e assennata. Infatti, per inaugurare il parquet lisbonese, la piccola piovra dà una manata al piatto di plastica e rovescia per terra la poltiglia informa dal vago sapore di lenticchie. Il padre emette inudibili maledizioni rivolte a varie divinità estintesi ennemila anni fa. La cena della bimba dura la bellezza di 45 minuti, passata ad intrattenerla cantando imperdibili pezzi rock quali il Torero Camomillo, Mi scappa la pipì e il Gatto Puzzolone.
Dopo di chè la bimba viene lasciata a scoprire casa nei suoi gattonamenti, e i genitori consumano veloci il loro pasto controllando che la bimba non infili l’intera mano nelle accoglienti prese elettriche portoghesi.
Conclusa la cena, arriva il tempo del riposo.
La casa non possiede un lettino per bimbi e il letto matrimoniale è troppo piccolo per ospitare tutti e tre. La soluzione è ovvia: il padre dorme nel letto singolo dell’altra stanza, e lo farà fino alla fine della vacanza: posizione del kamasutra forse scomoda, ma di certo sicura.
LISBONA E LA PIOGGIA.
A Lisbona piove, e pioverà per due giorni quasi ininterrottamente.
A e M non lo ritengono un problema. E’ una pioggia sottile, quasi una nebbiolina che avvolge la città in un’atmosfera nordico atlantica che rende omaggio alla sua posizione e alla sua storia. Bastano due ombrellini per andare in giro per la città e fare la prima scoperta dei quartieri d’intorno, e stando attenti si possono salire le scalinate che dalla Baixa conducono al Chiado e poi su al Largo do Carmo, e poi dentro fino ad arrivare al Miradouro del Jardim de San Pedro de Alcantara e godersi la prima visione di Lisbona dall’alto.
Lì, nella piazzetta, sorseggiano un bicchiere di vinho verde e si sentono già irresistibilmente avvinti dall’atmosfera della città. Tornano a casa  zompando e arrivativi trombano come coguari.A Lisbona piove, e pioverà per due giorni quasi ininterrottamente.
A e M con figlia alle calcagna lo ritengono un dannatissimo problema. Già scarrozzare la bimba su e giù in marsupio per le salite di Lisbona sarà  un accidenti di fatica, se poi ci aggiungiamo scale e ciottolato resi scivolosi dalla pioggia, l’intero affare si prospetta estenuante.
E infatti il buon padre, detto piedi d’argilla, rischia di cadere due volte all’indietro, con un elevato rischio di polverizzazione dell’osso sacro. La prima volta è sulla ripida discesa che conduce al Carmo tramite la Calçada do Sacramento. Mai nome fu più azzeccato per la via, vista il fenomenale moccolo che parte dalla bocca del padre non appena la suola della scarpa scivola via dall’acciottolato e prelude al tonfo sgretola-coccige, tonfo per fortuna evitato di un pelo.
La seconda scivolata avviene niente di meno che sulla scalinata della Basilica del Sè, anche qui, tonfo evitato per un pelo e microbestemmia attutita dal sollievo.
Alla bimba piace il vento che si solleva sopratutto in vista del fiume, tant’è che in piena Praça do Comercio (una sorta di Piazza Unità di Trieste affacciata sul fiume anzichè sul mare) è l’unica a sorridere mentre mamma e papà di fronte alla macchina fotografica fanno facce della serie “se volevo nebbia umidità al 100% e una bastarda pioggerellina che mi entra nelle ossa me ne restavo a Bologna in Piazza VIII Agosto coi tossici”).
LISBONA E GLI ELECTRICOS.
I tram gialli sono il simbolo di Lisbona. Fare un giro sul tram 28 da Martim Moniz fino alla basilica dell’Estrela è l’equivalente di un giro in gondola a Venezia, solo nettamente più economico.
A e M decidono dunque di non perderselo. Arrivano a Martim Moniz con la metro e attendono il loro turno tra decine di turisti e prendono posto comodamente a sedere.
Il percorso offre decisamente il meglio di questa strana città fatta di saliscendi:il pittoresco quartiere di Graça, Rua Escolas Gerais che porta fino al Largo Portas del Sol e al Miradouro Santa Lucia che domina l’Alfama, più giù la Basilica del Sè, la Baixa, poi su per il Chiado, Piazza Camoes, Bica, Santa Catarina fino alla Basilica dell’Estrela.
Piacevolmewnte sballottolati dall’incedere di questo mezzo novecentesco, A e M ritornano infine a casa e, non volendo fermarsi, ci danno dentro come gazzelle di Thomson.
I tram gialli sono il simbolo di Lisbona. Fare un giro sul tram 28 da Martim Moniz fino alla basilica dell’Estrela è l’equivalente di un giro in gondola a Venezia, solo nettamente più economico. E dannatamente più scomodo, se il giro te lo fai in piedi.
Eh si perchè A e M, con figlia in marsupio, con la pioggia che batte non possono permettersi di selezionare il tram più vuoto, e si infilano tosto nel primo tram che passa, ovviamente sovraffollato come un otre rigonfio.
Non so se siete mai andati nei luna park su un trenino a binari nel tunnel dell’orrore. Bene, ricordate come accelerano e sopratutto sterzano quei cosi?  Devi avere una sbarra di ferro ben stretta sulla pancia per evitare di essere scalzato dal trenino.
Ora, togli qualsiasi sbarra di ferro, mettiti in piedi e considera che il tram va non a 10 ma a 40 all’ora. Serri la mano sul gancio a disposizione e per tutto il tragitto sarà come andare sul toro meccanico. Salita, brusca svolta a destra, discesa, frenata semaforo rosso, accelerazione e svolta a sinistra e poi a destra, brusca frenata per motociclista testa di cazzo, fermata a richiesta, accelerazione, stop, accelerazione, brusca svolta a gomito. M. non fa che volteggiare attorno al gancio come un ginnasta russo agli anelli, hai i polsi in fiamme e le spalle suonate come una fisarmonica. In tutto questo ci fosse almeno un civilissimo turista nordeuropeo che offre il posto quanto meno alla mamma con figlia (che nel frattempo si sta divertendo da matti). Manco per niente, i civili nordeuropei se ne stanno bellamente sprofondati sul loro seggiolino, che l’inferno li inghiotta.
A e M con figlia in groppa resistono 5 minuti e scendono al Miradouro di Santa Lucia. M cerca un angolo per vomitare, A maledice nell’ordine questi dannati aggeggi demodè, l’intero secolo del novecento e quei lerci nordeuropei che la guardavano con glaciale indifferenza e invoca una ruspa che spiani i sette colli di Lisbona e faccia colare cemento su quelle maledette rotaie. La bimba invece è ancora lì che balla la cucaracha. Leggi il seguito di questo post »

Il comandante Caracalla

5 aprile 2013

2791

L’arrivo della bimba ha fatto scoprire a me e Sunofyork una marea di cose di cui ignoravamo l’esistenza. E non parlo del senso materno o paterno, o dell’infinito amore per i figli, o del senso del sacrificio e balle varie.
Parlo dell’esistenza delle 4 di mattina. Fino a sei mesi fa, le “4 di mattina” erano una leggenda metropolitana. Si, si sapeva che c’erano, probabilmente l’orologio le coglieva ad un certo punto della notte, ma io personalmente non le avevo mai vissute nè viste da sveglio.
Ecco, la bimba ci ha fatto conoscere non solo le quattro, ma anche le tre, le due, le sei e le cinque. Cinquina secca sulla ruota del quartiere Savena.
Passate a cambiare pannolini, a scaldare il latte, ad allattare, a cullare, le ore notturne adesso le conosciamo benissimo, e le sentiamo nel naso e anche nella gola.
Per carità, occorre dire che rispetto ai racconti da tregenda di altri genitori, a noi è andata anche bene. La bimba in fin dei conti ha cominciato a dormire ben presto a larghi intervalli di risveglio, e nei magici terzo e quarto mese è stata capace, complici le vacanze natalizie in casa dei nonni, di dormire di filato dalle 10 di sera alle 7 di mattina.
Dal 5 mese in poi, però, la bimba ha cominciato a dar segni di nervosismo serale. Dapprima si è attaccata alla droga lattacea materna, e questo per un po’ ha messo una pezza alle bizze serali.
Dal 6 mese in poi anche il latte materno ha smesso di avere quelle magiche proprietà narcotiche, e ci siamo ritrovate una bimba che alle 9 e mezzo di sera è stanchissima, incazzosissima, sgusciante come un’anguilla e infastidita dal mondo. I motivi, valli a sapere. Saranno i dolori dei dentini che stanno a spuntare, le preoccupazioni per l’ingovernabilità del paese o la delusione per il calo del ritmo narrativo nella terza stagione di The Walking Dead, fatto sta che ogni sera è una lotta.
Sunofyork, dio la benedica, fino ad adesso si è scoppolata buona parte delle operazioni di messa a letto, anche perchè, per quanto mi sia messo di impegno, la montata lattea in me non è sopraggiunta. Ma adesso che l’addormentamento è divenuto indipendentemente dall’allattamento, anche il padre è chiamato a mettere a letto questa sorta di invasata opossum che ho per erede.
Ieri sera, in particolare, complice una serata di complicata gestione di questa piccola sovversiva, verso le 23, mentre nel lettino la bimba si dimenava senza sosta come un piccolo carnoso contenitore di tritolo, Sunofyork è giunta in soggiorno con lo sguardo delle grandi decisioni da prendere, ha puntato i piedi e messo le braccia conserte, in posizione Mastro Lindo: “Come maledizione facciamo a mettere a letto nostra figlia in modo sempre uguale, creando in lei delle abitudini e lasciandoci vivere almeno un pezzettino di sera in sua assenza?”

Sempre prodigo di soluzioni, ho accennato ad un “non saprei”.
Lei nel frattempo si era preparata sull’argomento, avendo consultato migliaia di siti e di forum che contenevano preziosi indicazioni, rimedi miracolosi, soluzioni estemporanee, incluse macumbe e riti vodoo.
“La soluzione più caldeggiata è metterla a letto da sola, e tornare di tanto in tanto per consolarla, ad intervalli di tempo sempre più lunghi, e sopratutto tutti sconsigliano di farla dormire spesso nel lettone”.
“Mi sta bene, giusto”.
“Cominciamo adesso allora!”, mi ha detto con decisionismo futurista.
“Ok, tra quanto tempo dobbiamo intervenire?”, mentre dall’altra stanza provenivano urletti, gorgoglii, accenni di piagnisteo e folli risatine tutte arrotolate in un’unica espressione vocale.
“Tra tre minuti.”
Da buon arbitro, avvio il cronometro dell’orologio ed osservo Sunofyork. Il suo sguardo, nel sentire da lontano sua figlia abbandonata a se stessa per 3 minuti, si oscura, poi si commuove, poi mi implora, poi avvampa di rabbia impotente e non si trattiene:
“Quanto è passato?”
“Dieci secondi”.
“Mio dio, è terribile!”
“Quindici secondi”.
“Smettila, è uno stillicidio!”
“Venti.”
Dopo manco un minuto e mezzo si è già scaraventata ai piedi del lettino per prendere in braccio il giovane Werther che si lamenta della sua condizione esistenziale.
Dopo una decina di minuti torna. La bimba non si è addormentata, blatera sul lettino.
“Bene, dopo tocca a te, quando comincia a lamentarsi calcola tre minuti e poi vai”.
La bimba comincia a piangere moderatamente. Io aspetto. La bimba piange sempre di più. Io attendo placido. Sunofyork mi prende quasi di peso e mi manda in camera: “Ma non la senti che piange!! Vai!”
“Ma veramente, i tre minut..”
“VAI!”
La bimba mi attende nel lettino piangente, con un lampo di speranza negli occhi. Mi siedo a fianco, e comincio a massaggiarle piano il pancino e a cantare una ninna nanna improvvisata. Niente. Rispolvero il mio repertorio scout. Nada. Le parlo piano implorando pietà. Ormai strilla. Saranno passati 40 secondi e vedo un’ombra torreggiare avanzando nel chiaro-scuro della zona notte. In mezzo secondo la porta si spalanca e vedo Sunofyork in tutto il terrore che sa provocare intimarmi di farmi da parte:
“Togliti dalle palle! La consolo io mia figlia! Fammela allattare!”
“Ma abbiamo deciso di…..le teorie sui forum….si deve addormentare da sol..”
“Me ne sbatto di tutte queste stronzate, dammi mia figlia, rimango con lei, buonanotte!”
Me la batto di filata, temendo per la mia sorte.

Più tardi torno per dormire. La bimba dorme come un papa nel lettone, Sunofyork si sveglia e la trasferisce nel lettino, dove continua beato il sonno. Alle 4 di mattina la bimba si sveglia e Sunofyork mi invita gentilmente a cedere il mio posto:”Ehi, te ne vai?” Manco mi sono alzato che la piccola Caracalla è già distesa in mezzo a noi come su un triclinio con l’uva in mano.

Potrei obiettare su teorie e inviti pedagogici, ma alle 4 di mattina Sunofyork è pericolosa come un grizzly. Con un gesto di assenso silenzioso, vado in esilio nell’altra camera da letto.
La giovane imperatrice dorme beata tra due guanciali, troneggia sui nostri buoni propositi, e se la ride dei nostri teoremi educativi.


L’Ombra dello Scorpione, con vent’anni di ritardo

14 marzo 2012

Nella primavera del 1993 mio fratello Pfaff si fece prendere dalla febbre di Stephen King.
Comprò praticamente ogni suo romanzo in versione paperback e la sua vita sociale finì lì per qualche mese. Se ne stava rintanato in camera a leggere avidamente per pomeriggi interi, e non avendo mai visto mio fratello leggere null’altro che le indicazioni nutrizionali sulla confezione dei Kellogg’s Cornflakes, ed essendo io per l’inciso il topo di biblioteca della famiglia, cominciai ad essere incuriosito da questa subitanea illuminazione letteraria.
Ai tempi la nostra fraterna comunicazione si limitava a inespressivi monosillabi, intercalati da qualche vaffanculo e intervallati da pugni dati, morsi resi e lividi ricevuti. Capirete, con questo popò di dialettica e di dialogo, quanto difficile fosse per me capirne di più e sopratutto farmi prestare qualche libro. Ma mio fratello Pfaff, per quanto potesse apparire uno psicopatico che minacciava di accoltellarmi due volte al giorno (e non senza ragioni che reggerebbero facilmente in tribunale, devo ammettere), era anche e sopratutto un buono, ed aprì a richiesta il suo scrigno di libri perchè potessi leggerne anch’io.
Fu così che l’anno scolastico 1993-94 fu dedicato, ben più che all’esame di maturità o ad altre stupidaggini del genere, alla avida lettura dello scrittore americano. Ricordo che cominciai con “Finestra segreta, giardino segreto”, racconto del formidabile “Quattro dopo mezzanotte” e continuai poi con Salem’s Lot, A volte ritornano, Shining, Stagioni Diverse e chi più ne ha più ne metta. Lessi Misery in pulmann durante la gita di terza liceo da Lecce a Parigi, quasi cagandomi nelle mutande esattamente tra Aosta e Lione.
Su tutti, prevedibilmente, la spuntò It, quel bestione da 1200 pagine che divorai in due settimane perdendo la cognizione del tempo e dello spazio. Rimase il mio preferito nonostante Pet Sematary, i Langolieri e Dolores Claiborne. Forse solo il Signore degli Anelli, letto solo anni dopo, seppe coinvolgermi di più.
In tutto questo, tornando al 1993/94, visto il mio accanimento non minore del suo, mio fratello Pfaff continuava a domandarmi perchè tra tutti i libri letti continuassi a snobbarne uno, ovvero perchè non leggessi l'”Ombra dello Scorpione”. Gli rispondevo che di prendere in mano un altro tomo di dimensioni medievali non c’avevo nè voglia nè coraggio. Fu così che, passata la sbornia da Stephen King, quel libro rimase non letto non solo per tutti gli anni ’90, ma anche per il primo decennio del nuovo secolo.
Fino ad un mese fa. Quando per puro caso me lo sono trovato nelle mani. E in tre settimane di viaggi in bus per e dal lavoro, solitari eremitaggi in bagno e letture prenotturne è stato letto, che dico letto, divorato, che dico divorato, ingoiato sano quasi fisicamente.
Eccomi dunque, con ventanni di ritardo, a parlare di “The stand”. E lo chiamo col suo vero nome, perchè francamente io dopo mille e passa pagine non ho capito perchè abbiano tradotto il titolo originale in “L’Ombra dello scorpione”. E non solo perchè di scorpioni non ne ho vista neppure l’ombra (amabile gioco di parole) ma perchè per quanto accattivante, il titolo non rende in alcun modo il significato, o pezzi di significato di questo romanzo.
Recensioni noiose a parte, The stand è un romanzo formidabile, poco da dire. Se ogni tanto si ha bisogno di essere catturati da una dimensione fantastica, avventurosa e “altra” rispetto alla realtà quotidiana, questo libro è sicuramente una delle armi di distrazione dal reale più potenti di cui una libreria casalinga possa dotarsi.
Appassionante nell’incalzare degli eventi, sufficientemente lento da non affrettarli troppo, in equilibrio su una coralità di protagonisti quasi tutti azzeccati, in bilico tra un realismo postapocalittico angosciante e il sapiente brivido del fantahorror.
Non è un romanzo perfetto, per carità, ma francamente di romanzi perfetti ne ho letti davvero pochi nella vita, mostri sacri della letturatura russa e francese compresi. Ma il suo difetto per me sta proprio nell’opposto per cui viene criticato. I detrattori lo ritengono un polpettone eccessivamente lento, che avrebbe meritato un paio di centinaia di pagine di meno. Ecco, per me il difetto di The Stand è che è troppo corto. Avrebbe meritato una collana di libri in cui si dipanassero lentamente gli eventi di quell’anno solare in cui si concentrano le vicende. I singoli protagonisti, sia buoni che cattivi, avrebbero meritato più spazio e più pagine.
The Stand, in definitiva, aveva tutto per divenire una saga come Star Wars o Dune. Invece è tutto concentrato in un libro, per quanto panciuto e scritto fitto fitto. La carne che King aveva messo al fuoco era tanta. La sola folgorante intuizione narrativa dell’epidemia di massa sarebbe bastata a farci due romanzi, ed invece è solo il prologo di tutt’altra vicenda. Leggi il seguito di questo post »


La notte che morì Babbo Natale

25 dicembre 2011

Chi mi conosce di persona, considerando la mia misantropia sottesa ad un sostanziale cinismo e ad uno spirito improntato ad un ferreo riduzionismo non immune da sarcasmo, potrebbe ben immaginare che io appartenga a quella folta schiera di persone che odia il Natale.

Niente di più falso. Il Natale è il periodo più rilassante dell’anno. Una giusta alchimia di ferie, freddo intenso fuori, film a profusione in tv, pranzi luculliani dove sfilano carni pregiate d’aromi d’oriente e dove il vino fruscia in calici finemente screziati. E devo dire che quella sottile, finta e ipocrita aria carica di magia artificiale fatta di luci colorate, regali inutili ed auguri farlocchi, non riesce a disturbare il mio umore tendenzialmente garrulo e pacificato. Seduto sulla poltrona, col caffè caldo preparato dal babbo, dolci a portata di mano ed un sapido odore di cibo che si va cucinando, appollaiato davanti ad un film o ad un videogioco, nessun Grinch può riuscire a rubarmi il Natale.

Questo prevedibile e conformista atteggiamento borghese nei confronti del Natale deriva in realtà da un’infanzia in cui il Natale ha avuto per lunghi anni aspetti magificati, un sogno ad occhi aperti di 15 giorni di vacanze dove regnavano incontrastati Babbo Natale e la Befana.

Ho creduto all’esistenza di codeste figure mitologiche fino all’età di 9 anni, credo, forse anche 10. La mia furia iconoclasta si è sviluppata solo in seguito, ma a quell’età figure di autorità come quelle erano oggetto di una assoluta e acritica devozione. Insomma ero un dannato babbeo.

D’altronde, avevo anche le prove della loro esistenza. Su Babbo Natale avevo una lettera scritta di suo pugno, quando un anno io e i miei fratelli scoprimmo nello scantinato, due giorni prima di Natale, tutti i regali che avevamo chiesto a Sua Babbità, non ancora incartati. Stupefatti come beccaccioni, ignari come polli, corremmo dai nostri genitori a comunicare l’incredibile scoperta. Loro confiscarono i regali, dicendo che Babbo Natale si sarebbe molto arrabbiato, e che quindi avrebbero restituito tutto al barbuto postino prima che fosse troppo tardi. Il giorno dopo ricevemmo una lettera scritta con una strana calligrafia femminile quasi materna, in cui il ciccione vestito di rosso spiegava che, dovendo consegnare in una sola notte tutti i regali del mondo, si era portato avanti col lavoro. Da bravi gonzi abboccammo all’amo, e il Natale fu salvo. Leggi il seguito di questo post »