Abito probabilmente nella via più popolata del centro storico della città. Una via stretta stretta, pavimentata in porfido, fatta di case che si affacciano l’una davanti all’altra, ciascun condominio con un colore diverso che ne distingue la facciata. Ci abitano sopratutto studenti e stranieri, e i restanti autoctoni del luogo sono ridotti ad una minoranza fantasma che appare solo nelle targhette dei campanelli, ma che in sostanza è impalpabile.
Abito al primo piano. Sarà quello, sarà il porfido, saranno gli spazi stretti, ma qualsiasi cosa accada in strada io la sento rimbombare. I dialoghi dei passanti, i passi dei solitari di sera, i litigi dei vicini, la bisboccia dell’osteria qua sotto.
Hugo mi abita proprio di fronte, ma al piano terra. Io posso vedere la sua vita dentro lo spazio angusto della finestrella sbarrata della sua cucina, lui di me non può sbirciare nulla. Di giorno è un ragazzo sudamericano dai tratti marcati da indio che avrà forse ventanni, veste jeans attillati che ne mostrano un sedere perfetto e un fisico che nessuna ragazza disdegnerebbe. Di sera veste abiti femminili spericolati calzando ancora più spericolati tacchi, e il suo viso acqua e sapone si riempie di trucco, con quei capelli riuniti a coda come fosse Fiorello ai tempi del karaoke, che la sera si ritrovano all’improvviso mossi ed in tiro.
La voce è quella di un ragazzone, il corpo è sinuoso e depilato, le sopracciglia sono finte e la clientela è assolutamente maschile. Hugo non lavora a casa, diciamo quasi mai. E non c’è neanche sempre. Per lunghi periodi non si nota, non lo vedi, in casa sua vanno e vengono una marea di sudamericani, come se lì vivesse una strana famiglia disneyana senza padri o figli in cui tutti si somigliano. Quando c’è, però, lo noti subito. La voce rimbomba femminile nel tono e maschilissima nel timbro, il suo sfilare in quei jeans stretti stretti fa voltare donne e uomini. Alla sera la sua uscita è preannunziata dall’arrivo di un taxi, che attende due minuti prima che esca questa poderosa sventola dal portone di legno, e senza neanche guardarsi intorno, entri di fretta nel taxi. A volte l’ho sentito tornare, verso le quattro di mattina, perchè litigava sol suo cliente, che lo accusava di avergli fottuto dei soldi, o con il tassista, perchè non aveva una lira per pagarlo.
Quando lavora a casa te ne accorgi perchè davanti ci stazionano degli strani tipi, di qualsiasi età, padanissimi nell’aspetto slavato e insignificanti nel volto, di quel sottoproletariato italiano che, ci scommetti, tra un po’ andrà a gonfiare le passeggiate serali delle ronde cittadine per la sicurezza. Aspettano nervosi fumando una sigaretta, si guardano in giro credendo di passare inosservati, ma in realtà tutto l’isolato sa cosa stanno per fare. A volte Hugo non li riceve, e questi si incazzano, alzano la voce, spaccano bottiglie. Ma alla fine con la promessa che potranno giocare col suo birillo la sera successiva se ne vanno.
Io e Hugo non ci siamo mai presentati, non ci salutiamo quando ci si incrocia. Io non sono il suo tipo, cioè uno che pagherebbe per andare con un trans, e lui non è il mio. Anche se mi attizzasse quel tipo di sesso, e potesse incuriosirmi il farlo con uno che conserva nelle mutande qualcosa che è speculare a quello che c’è nelle mie mutande, c’è un impedimento che rende impossibile qualsiasi pensiero di accoppiamento: non potrei mai farlo con una donna che ha una prima di reggiseno. Sorry, Hugo, niente di personale.
Io odio Hugo. Non per il mestiere che fa, nè per i clienti che si porta a casa. Anzi, quel sedere sodo che passeggia per la via è un contentino per gli occhi che non disdegno. Non mi dà fastidio la voce, certo mi inabiliterebbe qualsiasi erezione se dovessi trascorrere la mia intimità con una tale ugola di carta vetrata. Leggi il seguito di questo post »