Hugo ha le tette troppo piccole per me

16 Maggio 2009

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Abito probabilmente nella via più popolata del centro storico della città. Una via stretta stretta, pavimentata in porfido, fatta di case che si affacciano l’una davanti all’altra, ciascun condominio con un colore diverso che ne distingue la facciata. Ci abitano sopratutto studenti e stranieri, e i restanti autoctoni del luogo sono ridotti ad una minoranza fantasma che appare solo nelle targhette dei campanelli, ma che in sostanza è impalpabile.

Abito al primo piano. Sarà quello, sarà il porfido, saranno gli spazi stretti, ma qualsiasi cosa accada in strada io la sento rimbombare. I dialoghi dei passanti, i passi dei solitari di sera, i litigi dei vicini, la bisboccia dell’osteria qua sotto.

Hugo mi abita proprio di fronte, ma al piano terra. Io posso vedere la sua vita dentro lo spazio angusto della finestrella sbarrata della sua cucina, lui di me non può sbirciare nulla. Di giorno è un ragazzo sudamericano dai tratti marcati da indio che avrà forse ventanni, veste jeans attillati che ne mostrano un sedere perfetto e un fisico che nessuna ragazza disdegnerebbe. Di sera veste abiti femminili spericolati calzando ancora più spericolati tacchi, e il suo viso acqua e sapone  si riempie di trucco, con quei capelli riuniti a coda come fosse Fiorello ai tempi del karaoke, che la sera si ritrovano all’improvviso mossi ed in tiro.

La voce è quella di un ragazzone, il corpo è sinuoso e depilato, le sopracciglia sono finte e la clientela è assolutamente maschile. Hugo non lavora a casa, diciamo quasi mai. E non c’è neanche sempre. Per lunghi periodi non si nota, non lo vedi, in casa sua vanno e vengono una marea di sudamericani, come se lì vivesse una strana famiglia disneyana senza padri o figli in cui tutti si somigliano. Quando c’è, però, lo noti subito. La voce rimbomba femminile nel tono e maschilissima nel timbro, il suo sfilare in quei jeans stretti stretti fa voltare donne e uomini. Alla sera la sua uscita è preannunziata dall’arrivo di un taxi, che attende due minuti prima che esca questa poderosa sventola dal portone di legno, e senza neanche guardarsi intorno, entri di fretta nel taxi. A volte l’ho sentito tornare, verso le quattro di mattina, perchè litigava sol suo cliente, che lo accusava di avergli fottuto dei soldi, o con il tassista, perchè non aveva una lira per pagarlo.

Quando lavora a casa te ne accorgi perchè davanti ci stazionano degli strani tipi, di qualsiasi età, padanissimi nell’aspetto slavato e insignificanti nel volto, di quel sottoproletariato italiano che, ci scommetti, tra un po’ andrà a gonfiare le passeggiate serali delle ronde cittadine per la sicurezza. Aspettano nervosi fumando una sigaretta, si guardano in giro credendo di passare inosservati, ma in realtà tutto l’isolato sa cosa stanno per fare. A volte Hugo non li riceve, e questi si incazzano, alzano la voce, spaccano bottiglie. Ma alla fine con la promessa che potranno giocare col suo birillo la sera successiva se ne vanno.

Io e Hugo non ci siamo mai presentati, non ci salutiamo quando ci si incrocia. Io non sono il suo tipo, cioè uno che pagherebbe per andare con un trans, e lui non è il mio. Anche se mi attizzasse quel tipo di sesso, e potesse incuriosirmi il farlo con uno che conserva nelle mutande qualcosa che è speculare a quello che c’è nelle mie mutande, c’è un impedimento che rende impossibile qualsiasi pensiero di accoppiamento: non potrei mai farlo con una donna che ha una prima di reggiseno. Sorry, Hugo, niente di personale.

Io odio Hugo. Non per il mestiere che fa, nè per i clienti che si porta a casa. Anzi, quel sedere sodo che passeggia per la via è un contentino per gli occhi che non disdegno. Non mi dà fastidio la voce, certo mi inabiliterebbe qualsiasi erezione se dovessi trascorrere la mia intimità con una tale ugola di carta vetrata.  Leggi il seguito di questo post »


Notte prima del primo giorno di lavoro

8 gennaio 2009

Da qualche parte ho già ammesso di non aver mai praticamente lavorato. I miei  molti quarti di sangue terrone  (ora che ci penso sono quattro quarti) varranno pure qualcosa, diobono. Si, qualcosa ho fatto, ma con vincoli di orario e prestazione talmente allentati che chiamarlo lavoro sarebbe un dileggio al buonsenso. E ai lavoratori, va da sè.  Solo che adesso mi tocca iniziare davvero. Con tanto di orario a tempo pieno, treno da prendere la mattina, pausa pranzo e ritorno a casa esausto in tempo per mangiare e andare a letto. Insomma, l’orrore quotidiano da cui mi sono sempre tenuto distante scroccando un po’ qua e un po’ là.

Ad ogni modo, il primo giorno di lavoro è giunto, e sapevo che psicologicamente sarabbe stata una mazzata. Tant’è che , per una mera questione cronologica, temevo sopratutto la notte prima della fatidica inchiappettata.  Sono sempre stato un sensibilone, tant’è, e dunque le vigilie di appuntamenti particolarmente importanti sono sempre state dedicate all’insonnia. Sin dai tempi delle interrogazioni di greco,  o degli esami di istituzioni di diritto, o anche solo prima di andare a comprare Zelda per il primissimo Nintendo.

Mi ero dunque preparato, con un metodo affinato nel tempo: bere massicciamente discreti bicchieri di vino bianco, senza ubriacarsi, ma in modo da crollare a letto vestito e dormire il sonno di Bacco fino alla sveglia. La vernaccia fresca  di frigo è stata stappata, il vino bevuto assieme ad un risotto, il sonno è arrivato, faccio a tempo a mettermi il pigiama, e crollo.

Sarà come sarà, forse la Vernaccia di quest’anno l’hanno annacquata, o forse sono io che passati i trentanni sto diventando sempre più ansioso e candidato all’infarto, fatto sta che alle 3 e mezzo mi si sono aperti gli occhi come a Terminator. Tutti e due insieme, e dopo un secondo ero sveglio come il diavolo. Cazzo, che fare? Le soluzioni immediate come al solito sono due: alzarmi e vedere un po’ di televisione, possibilmente le videolezioni del Progetto Nettuno, in assenza di videochat erotiche, oppure svegliare chi mi sta accanto per un po’ di sano sesso pacificatore dei sensi e delle ansie. Entrambe le soluzioni se ne vanno però al diavolo: lei ha il sonno leggero del cane da guardia, e il solo tonfo leggero del mio piede sul pavimento la sveglierebbe, con la mortale conseguenza che mi chiederebbe di fare la cosa più orribile si p0ssa fare di notte: parlare. Inoltre ha l’influenza: svegliarla e fare sesso mentre è influenzata è crudele ed egoista, e poi sopratutto non me la darebbe mai. L’altra soluzione è solo per i single, ovvero fare da soli, ma tirarsi un bel raspone mentre la tua donna ti dorme accanto è francamente deprimente anche per me.

Dunque rimango a letto. Leggere il Grande classico Disney di terza mano poggiato sul comodino alla mia destra, manco per niente, perchè di accendere la luce non se ne parla. Dunque comincio a provare le posizioni più comode che facciano svanire l’ansia e ritrovare il sonno: pancia sotto, mano sotto il cuscino, mano sopra il cuscino, di lato, posizione fetale con tanto di pollice in bocca, supino, posizione cassa da morto con tanto di mani incrociate sul petto e rosario tra le dita, provo persino a mettermi una mano nelle mutande per trovare relax nel mio tepore scrotale, ma l’unico risultato alla lunga è di provocarmi una non richiesta e imbarazzante erezione, che provvedo subito a non incoraggiare, dato che resterebbe insoddisfatta per i motivi di cui sopra.

In tutto questo rigirarsi come un pollo allo spiedo è passata solo mezz’ora, puttana eva. L’orologio ad infrarossi puntato sul muro mi condanna ad una notte lunga imprigionato nelle coperte, a pensare alle peggiori sfighe possano accadermi nella vita: malattie mortali, povertà assoluta, impotenza coeundi et generandi, l’ennesimo scudetto all”Inter, un viaggio in treno solo con Sandro Bondi.

Pensando a tutto questo passa un’ora. E comincio a cedere col dormiveglia, facendo sogni orribili di vermi da pesca che , sfuggendo dalle mie mani, si trasformano in mostri con denti aguzzi e dilaniano ogni componente della mia famiglia. La scena splatter deve essere durata un bel po’, perchè mi sveglio e sono le cinque e mezzo. E penso che non doveva essere vernaccia quella che ho bevuto, ma mescalina di San Gimignano.

Lei dorme imbottita dalle droghe antinfiammatorie antipiretiche antibiotiche che si è ingurgitata quasi come fosse Marilyn Monroe, ed io con gli occhi fuori dalle orbite a fissare le luci della strada che filtrano dalla persiana. Conto le pecore, conto fantastiliardi di pecore,  compresi pastori e  cani da pastore. Questa stronzata delle pecore deve averla inventata uno che spero stia soffrendo all’inferno.

Poi, come ogni insonnia che si rispetti, arriva il momento della musica di sottofondo. Ovvero di una puttanissima canzone che ti si insinua nelle orecchie, nel silenzio agghiacciante della veglia, e che comincia a ripetersi ininterrottamente senza sosta, tipo Rosemary’s baby, come una sorta di punizione per qualcosa che sicuramente ho fatto ma che non credevo fosse così grave. Solitamente mi capita con canzoni dei cartoni animati, o con luride canzoni pop che nella vita di tutti i giorni disprezzo ma di cui il mio subconscio evidentemente  è patito. Stavolta no, la scelta random è sulla canzone d’autore, nientepopodimenoche Vinicio Capossela, Contratto per Karelias, dritto dritto da Canzoni a Manovella. Bella canzone direte. Beh, sentitevi trapanare le orecchie per due ore da quella nenia greca gracchiata dal buon Vinicio, e chiamerete a voce alta Sora Morte che vi venga a prendere per chiudere i conti., non prima di aver fatto a pezzi quel fottuto cd. Arrivo anche a canticchiarla pianissimo, ormai rincoglionito , sono stanco morto ma non ho sonno, credo non esista punizione corporale peggiore (beh, forse ne esistono). E in tutto questo bailamme di sottofondi di rebetico il sonno arriva e non te ne accorgi, nemmeno hai la soddisfazione di dire si, cazzo, muori troia di una insonnia. Niente, puf, mi addormento così come mi sono svegliato. Alle 6 e mezzo.

Alle 7 suona la sveglia, e ci vogliono le cuscinate di lei per farmi destare dalla catalessi. Ho certe occhiaie che sembrano due sgombri coricati sotto le palle degli occhi. Un colorito cadaverico e tutta una giornata di lavoro che mi attende. La mia prima giornata di lavoro.