Cenni di antropologia pugliese balneare comparata

19 agosto 2015

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La smisurata lunghezza della mia regione di nascita comporta almeno due conseguenze di natura pratica. La prima è l’illusione che l’ingresso autostradale nella regione, posta verso il casello di Poggio Imperiale, crea nel turista che deve recarsi per la prima volta a Leuca.

“Ehi, il cartello dice che siamo arrivati in Puglia!!”

“Bello, quanto manca a Leuca?”

“Boh, che ne so, ma quanto sarà mai, siamo in Puglia ormai, che ci frega, quanto mai sarà lunga sta regione, cento, centocinquanta kilometri?

“Infatti, sento già l’odore dellu sule, dellu mare e dellu ientu!!!”

” Possiamo già toglierci le cinture di sicurezza, risparmiamo tempo!”

Già, vaglielo a dire che a Leuca mancano ancora oltre 400 km, cinque cacchio di province da attraversare tra autostrade, superstrade, strade comunali e sentieri paludosi, e un botto di ore in cui si arriverà ad invocare la morte come una liberazione dall’abitacolo.

La seconda conseguenza della lunghezza della regione Puglia è la compresenza, all’interno della stessa, di spaccati antropologici assolutamente distanti e che in comune hanno ben poco. Per ragioni di brevità, mi concentrerò esclusivamente sugli stereotipi stucchevoli sulle differenze antropologiche esistenti tra il bagnante barese e il bagnante salentino nel loro modo di concepire il mare e la spiaggia.

1° Sottile Differenza: il chilometraggio percorso per recarsi al mare.

Il bagnante barese ha dovuto fare i conti con la dura realtà della geologia costiera pugliese, ovvero che a fronte a centinaia di coste paradisiache di spiaggia che la natura ha letteralmente vomitato in faccia al tacco d’Italia, alla città di Bari e al suo circondario è toccata una costa  lievemente infame, fatta di scogliere basse e poco praticabili, del tutto inadeguata a  recepire decine di migliaia di persone che sbavano voglia di mare, e che ogni volta che il termometro arriva ai 20 gradi si precipitano sul litorale manco fosse l’ultimo giorno su questa terra. Ecco dunque che, non essendoci posto per tutti, il barese deve mettersi in macchina e macinare fior di kilometri per soddisfare la sua fame di mare. Che siano le coste del Gargano, del tarantino o del brindisino, e fino al più basso Salento, i bagnanti baresi si spandono a macchia d’olio lungo la regione e approdano come novelli esploratori letteralmente dovunque, dalle località più rinomate ai luoghi più desolati sconosciuti ai più. Sciamano come cavallette dalla capitale e raggiungono qualunque luogo che sia minimamente raggiungibile. Nessun luogo è precluso al barese. Nessun luogo della Puglia è stato scoperto prima dell’arrivo di una comitiva barese.

Il barese è capace di alzarsi la mattina alle 5, partire in direzione Ugento, ovvero a 220 km dalla città, e tornare in giornata a casa in tempo per la cena. Traffico e distanze non lo impressionano, la scomodità è gestita con la stesso pratico spirito di adattamento che lo portano a passare una giornata al mare nei litorali vicini alla città nonostante siano composti da scogli aguzzi come lame di una katana giapponese e l’accesso all’acqua sia talmente difficoltoso da far desistere un sub professionista.

Il bagnante salentino è uno baciato dalla fortuna. Il più sfigato posto del Salento dista dal mare al massimo 25 km. Praticamente al massimo mezz’ora di macchina. Questa condizione, assieme all’atavica accidia tipica del salentino, ha fatto sì che il salentino medio non stia tanto a girare, ma faccia riferimento al posto di mare più vicino, senza star troppo a fare calcoli. Ogni Comune ha la sua marina di riferimento, e il criterio di vicinanza geografica trionfa sempre, e pur di non muovere le chiappe dieci kilometri più in là, il salentino accetta anche il tratto di mare meno affascinante a dispetto del tratto caraibico che dista qualche movimento di chiappa più a destra. Per il salentino il mare è tutto tranne che sbattimento, e dunque ben venga la spiaggia con a fianco il canale di scolo delle acque reflue, se dista dieci minuti di macchina. Leggi il seguito di questo post »


Postulati empirici sulla circolazione stradale nel Salento

17 agosto 2011
Le consuete ferie salentine si sono consumate. Sono abbronzato quasi come un venditore di cocco bello, sono stato a mollo per decine e decine di ore nelle acque adriatiche e ioniche, ho letto sotto l’ombrellone una quindicina di Tex ed ho gustato serate salentine rigorosamente lontane dalla calca agostana assieme a persone fidate e a sublimi pietanze annaffiate da una birra a volte anche artigianale.
Ma per fare tutto questo, ho ovviamente dovuto muovermi nelle strade salentine in macchina. E tutte le tossine smaltite nelle attività sopra menzionate si sono ogni volta ripresentate non appena ho acceso la macchina e mi sono dovuto tuffare nel traffico del tacco d’Italia, fianco a fianco con l’atavica irragionevolezza degli automobilisti salentini.
Ecco dunque, anzichè ameni racconti delle mie nuotate nell’acqua verde di Torre Lapillo, o dei sapidi turcinieddhri delle grigliate in campagna, o delle sanguinose disfide a racchettoni con Vlad, vi propongo un elenco rigoroso di assiomi, postulati, formulazioni, leggi che possano in qualche modo mettervi in guardia nel caso decideste di inabissarvi nel profondo sud-est auto/moto muniti.
1) La distanza tra un punto A e un qualsiasi punto B, in Salento, è sempre unito da una linea retta, e qualsiasi rotatoria vi si inserisca è solo uno stato mentale.
Ho già scritto tempo fa che, ben più dei baresi, sono le rotatorie le nemiche odiatissime degli automobilisti salentini. Presenti ormai da una decina di anni ed in fastidioso aumento, vengono considerate dai miei conterronei un vero e proprio insulto alla ragione elementare. E bisogna comprenderli, checcazzo: il giorno prima il loro incrocio preferito era bello diritto, dominato dalla legge della giungla, terreno dei forti e dei coraggiosi. Lamiere e squarci di copertone sono ancora lì, ai bordi della strada, a rammentarci i tempi eroici in cui decine di valorosi salentini divenivano carcasse alla mercè degli avvoltoi pur di affermare l’orgoglio terrone ribelle ad ogni precedenza, semaforo, o semplice buon senso.
E invece, queste cazzo di rotatorie rischiano di effemminare generazioni di cazzuti salentini obbligati a questo umiliante girotondo attorno all’incrocio. Dannazione, siamo nella frontiera, ed in un certo senso siamo americani dentro, amiamo la soluzione più diretta. Così come gli americani detestano i tornanti in montagna, e costruiscono strade diritte con pendenze mostruose che solo i loro potenti e inquinanti suvvoni sono capaci di percorrere, così noi terroni, amanti sublimi creatori della scorciatoia, percepiamo come uno stupro il dover cautamente aggirare qualcosa anzichè aggredirla selvaggiamente.
Ma animo, qualcosa sta cambiando. La fiera gente salentina si sta ribellando a questa imposizione tutta nordica, a questa colonizzazione stradale padana. In una sorta di ribellione civile, alcuni di noi hanno deciso di ignorare la presenza di una rotatoria, e dunque di accellerare puntando dritto al centro  e provando a saltare in pieno stile Hazzard l’odioso ostacolo e passare indenni dall’altra parte e tiè, tanti saluti alla rotatoria.
A tutti i noiosi cultori della razionalità, è inutile che protestiate, affermando che è matematicamente impossibile incidentarsi in una rotatoria. Cazzate. Noi terroni possiamo, vogliamo, dobbiamo. Capelli selvaggi al vento, siamo gli ultimi indiani che non si sono arresi alle riserve, e con le vostre regole del cazzo ci facciamo il vino.
2) In un luogo X, che chiameremo Salento, tra un punto A che chiameremo punto di partenza e un punto B che chiameremo punto di arrivo ci sarà sempre un punto C, che chiameremo ApeCar. 
La velocità del punto C non supera mai i 15 km/h, dunque portatevi i cuscini per la notte.
3) Sempre nel predetto luogo X, tra il predetto punto A e il predetto punto B potrebbe non esserci il temuto punto C.
Ma non rallegratevi. Al punto C, se mancate, si sostituisce sempre il punto D1, ovvero un lento attraversamento di pecore con tanto di pastori e cane, o il punto D2, ovvero un passaggio a livello sbarrato nell’attesa infinita del passaggio di un pulcioso treno locale immancabilmente vuoto. Leggi il seguito di questo post »

Viandante, se giungi in Puglia…

20 agosto 2010

Viandante, se giungi in Puglia ti ritroverai nella regione più lunga d’Italia, un lungo tubo stretto che pare andare alla deriva in direzione sud-est. Sarà un viaggio ricco di insidie e tranelli stradali, un on the road popolato da alcune forme di irragionevolezza tipicamente levantine che sarà bene riconoscere per tempo.

Viandante, se giungi in Puglia noterai, appena dopo qualche kilometro, che qualcosa di nuovo e strano avviene lungo la A14. Nelle decine di km diritti in mezzo al nulla che dai laghi di Lesina portano sino a Cerignola, comincerai a vedere dietro di te automobili che sfanalano senza apparente motivo. Sullo specchietto retrovisore noterai dei segnali  misteriosi, codici inaccessibili, abbaglianti usati da solerti marconisti per inviare messaggi la cui urgenza si manifesta nel nervoso abbagliare. Non distrarti a chiederti cosa significhino, chè te lo spiego io: non ne ho la più pallida idea. Mi scervello da 30 anni a capire perchè appena arrivati in Puglia le macchine comincino ad usare gli abbaglianti per segnalare la loro posizione anche 40 secondi prima di sorpassarti. La teoria più interessante credo sia il bisogno di comunicare qualcosa, l’urgenza di un chiacchiericcio a distanza che ci prende a noi pugliesi al mercato così come all’uscio di casa e ci porta via. Se ci fosse la possibilità grideremmo quello che abbiamo da dirti, ma nell’impossibilità ci limitiamo ad un Codice Morse riveduto e corretto.

Viandante, se giungi in Puglia e non ti fermi in Gargano o a Trani o a Castel del Monte, giungerai a Bari, e dopo essere uscito dalla A14 entrerai in tangenziale. Il primo impatto provocherà la perdita del tuo senso dell’orientamento: ti chiederai dov’è la destra, dov’è la sinistra, qual’è la corsia di sorpasso, quale quella di marcia, e se i limiti scritti sui cartelli stradali sono semplici consigli spassionati o obblighi, oppure quel 90 di limite sottintende ad una diversa misurazione della velocità, tipo non so, le miglia baresi, che corrispondono ai 180 km orari in Italia. Quando entrerai in tangenziale infatti capirai che non c’è una corsia di marcia distinta da quella di sorpasso. Come in un grazioso circuito nascar cittadino, le macchine sfrecciano zigzagando impazzite, sorpassando in terza corsia in attimo prima di derapare tagliandoti la strada perchè devono imboccare l’uscita successiva a destra. E in tutto questo ti risparmio le furenti segnalazioni degli abbaglianti davanti di dietro di sopra dovunque, che qui in tangenziale raggiungono il picco dell’intensità e frequenza pugliese, tant’è che credo che da un satellite la tangenziale di Bari appaia come un corpo celeste che emette pulsazioni luminose da fare invidia ad un quasar. L’unico consiglio che posso darti, viandante, per sopravvivere a quei dieci km scarsi senza trasformare il tuo viaggio in un ameno autoscontro da giostre, è di pregare alla Madonna.

Viandante, se giungi in Puglia e decidi di lasciarti Bari alle spalle per scendere ancora più a sud, ti sarai ormai abituato all’uso sconsiderato degli abbaglianti, ma non sai che stai per entrare in un territorio in cui ben altre sono le irragionevolezze stradali. Ora, non ho dubbi che il Salento sia identico al barese o al brindisino, ma tant’è, qui ci sono nato e vissuto, e dunque posso parlare male solo della terra che mi ha vomitato. Leggi il seguito di questo post »


Passaggio a sud-est

11 agosto 2010

Per un abitudinario con tendenza alla ciclicità, nulla è meglio che consumare i propri riti di stagione, che si ripetono identici da anni. La discesa notturna e automunita in Salento, all’atto dell’inizio ferie estive, è uno di questi refrain sempre piacevoli da preparare e poi affrontare.

La preparazione altro non consta che di operazioni ovvie, come il preparar valigie e sbrinare il frigo, oltre ad un riposo pomeridiano più o meno lungo che mi faccia svegliare in serata pronto ad affrontare dieci-undici lunghe ore di viaggio. Quest’anno ho dormito dalle 18,30 alle 22, e verso le 23 ero in macchina nella piovigginosa Parmaperopoli, a ritirare il biglietto al casello. Come al solito, in questo lungo scivolo on the road, gli aneddoti, gli incontri, scorci ed ombre di una notte in autostrada, si sono accavallati giusto al punto da permettermi un post di mille battute.

1) Ore 00,20 Autogrill nei pressi di Imola: scontri tra maiali e tifosi.

Faccio la prima sosta per mangiare un panino e bere un caffè. Ma scopro ben presto che, a dispetto di un traffico abbastanza tranquillo, le stazioni di servizio sono preda di orde di pulmann che scaricano individui vestiti di una combinazione di colori a me cara, il bianco e nero. Faccio subito mente locale: la Juve ha appena giocato a Modena, dunque quei pulmann hanno una giustificazione spazio-temporale. A parte la coda porca che mi tocca fare per prendermi una rustichella ed un caffè, è sempre molto bello essere attorniato da fratelli gobbi che condividono con me l’amaro calice. Certo, si tratta di primo acchito di individui non propriamente ragionevoli, insomma se non fossi juventino da 35 anni suonati non mi recherei proprio tranquillo al bagno con loro. Fuori dall’autogrill assisto ad una delle scene più surreali della mia vita: un gruppo di 5-6 tifosi si è radunato davanti al camion, e vi inveisce con slogan da stadio. Mi avvicino accorto, e vedo che si tratta di uno dei tanti camion stracolmi di maiali stipati che attraversano l’Emilia notte e dì. A quei maiali, credetemi, davvero, proprio a quei maiali, i tifosi stanno gridando slogan come “inter merda” e “nerazzurri vaffanculo”, con tanto di gesti delle mani non propriamente educati. I maiali non se li filano molto, ma loro continuano e paiono divertirsi. Poi si girano verso di me che evidentemente c’ho scritto nell’espressione facciale un “siete una manica di teste di cazzo, benchè juventine, sempre teste di cazzo siete“. Mi ricambiano sguardi e momenti di silenzio non propriamente piacevoli, al che mi sento di ristabilire la mia vicinanza bianconera con frasi di rito quali “come ha giocato la juve stasera?” oppure frasi più tecniche che nessun dubbio possono alimentare sulla mia juventinità, quali “e motta come ha giocato? e il modulo con diego dietro amauri?“. Insomma si rilassano un attimo, però non sanno rispondermi un granchè: “la partita? e chi cazzo l’ha vista, si cantava, si tifava” e giù ridendo un altro coro contro i maiali. Me ne vado consapevole di essere tifoso di uno sport che produce in catena di montaggio una sesquipedale gragnuola di minchiazze.

Ore 1,50: chiude l’a14 per incidente, si esce a Riccione tra percorsi alternativi e tanta figa.

Ovviamente qualche imprevisto deve sempre capitare, ma in fin dei conti non devo mica correre. Un intero tratto, Cattolica-Pesaro, è chiuso per incidente, esco a Riccione. La statale 16 è ovviamente oberata di auto, dunque decido di crearmi un percorso aggira-ingorgo per arrivare a Cattolica non intontito dai gas di scarico del camion davanti. Ovviamente ho con me tutti i mezzi che la tecnologia ha messo a disposizione, ovvero un atlante dell’italia in una scala ridicola, roba che un mappamondo forse è più accurato. Comunque decido di fare Riccione – Misano Monte, poi qualche paesino sai-il-cazzo-come-si-chiama, infine arrivare a Pesaro e riprendere l’autostrada. Proseguendo comincio a salire sulle colline riccionesi, ed è tutto un bailamme di indicazioni su aquafan e discoteche varie. Di botto sono in coda, ziocane. Sarà l’ingresso per qualche fottuta discoteca, infatti è così. Ma la coda non è per entrarci. Chiunque passa per l’enorme entrata illuminata a giorno come un tempio greco, nota uno spettacolo che, per noi maschi medi e libidinosi, assomiglia quasi al Paradiso terrestre: una mandria, che dico, una flotta, che dico, una smitragliata di gnocca! Una trentina di ragazze, tutte bionde e vestite discintamente da miss, che si fotografano con gli avventori, si strusciano tra di loro, da sole, di gruppo, di sopra, di sotto, di sguincio e di rimando! Anche io proseguo a passo d’uomo col collo incriccato dalla pressione alta, e penso che forse qualche ora di discoteca non mi farebbe male, diamine, sotto ho il mio vestito da DiscoPaperoga sempre pronto! Poi però desisto, anche se mi costerà fatica e non pochi rimorsi lunghi una notte (dove siete, ora, mie slavate dee vestite di strass e pailettes?) Dopo 45 minuti di arzigogoli rientro in autostrada, ancora sospirante per quella visione di abbondanza. Leggi il seguito di questo post »


Lezioni di federalismo stradale

4 aprile 2010

Terminata la precedente insopportabile parentesi zuccherosa, e dopo aver firmato diverse carte obbligandomi a che ciò mai più si ripeta in questo blog, è ora di tornare al mio consueto sarcasmo. E, a proposito, mica crederete che quello nella foto del post precedente sia io, no? Che scherziamo, io sono incommensurabilmente più bello. Quello è solo un barbone a cui ho estorto una foto in cambio di un big mac. E poi, stando ad una accurata analisi psicologica arrivatami via mail da un lettore di questo blog, l’esegesi incrociata dei miei post ha fatto affermare con sicurezza a questo novello Freud che io sono una donna.

Questo post è in realtà una disperata ammissione di colpa, una inequivocabile dichiarazione di scuse. Sono emigrato ormai da 12 anni, e ogni volta che ritorno in Salento ammetto di avere forti problemi di jet lag mentale. Che non sono legati magari al cambiamento di clima, o all’apparizione di un fenomeno meteorologico sconosciuto in Emilia (il vento), oppure alla sensazione di straniamento del ritrovarmi in un luogo in cui non conosco più nessuno. No, niente di così complesso. I problemi di riadattamento ai luoghi di origine sono sempre stati legati al rituffarmi nel traffico pugliese.

Ebbene, io ho sempre creduto che i miei conterranei fossero in percentuale preoccupante automobilisti indisciplinati e sprezzanti del codice della strada, capaci di decine di violazioni delle regole nello spazio di cento metri di carreggiata. Mi sbagliavo,  e dio sa quanto. La soluzione era davanti a me, ed era molto semplice: non si trattava di migliaia di teste calde e fumantine che contravvenivano al codice della strada, bensì dell’esistenza di un altro testo di legge, il Codice stradale del Levante. Detto codice non si trova scritto in nessun inutile libercolo, ma è tramandato oralmente da generazioni. Dopo averlo finalmente decrittato, sono in grado di darvene sommariamente conto.

1) E’ la legge della giungla, bellezza.

Diamine, era così semplice. Altro che intricati calcoli su chi proviene da destra, o a noiose occhiate ai segnali di stop. Nel Levante vige la regola del “Passo prima io“. Tutto qua. Quando arrivi ad un incrocio dalle mie parti, senti a me, ignora i segnali, sono indicazioni sovversive propinateci dagli invasori piemontesi. Semplicemente, aggredisci il crocicchio ed imponi la forza bruta alle altre macchine. Invadi il cemento, stupra la carreggiata. E passa per primo. Poi toccherà al prossimo, e poi all’altro ancora, sempre secondo la regola della viulenza. Va da sè che una guida prudente, timorosa, che ancora si ostina ad attribuire un significato alla gigantesca scritta S T O P su sfondo rosso, è destinato a passarci le feste comandate su quei maledetti incroci. Se siete forestieri e capitate in un incrocio in cui non avete la precedenza, non confidate nella proverbiale accoglienza ed ospitalità meridionale che si interrompe, fatalmente, ogni volta che sopraggiunge un bivio.

2) Le rotatorie sono un’invenzione del demonio

La sfida più diabolica lanciata finora alle ferree regole della giungla vigenti in tema di precedenze, è sicuramente costituita dall’arrivo in terra levantina delle famose rotatorie. Quando anche da noi i classici incroci sono stati sostituiti da piccole e grandi rotonde, la legge del Passo prima io ha tremato, scossa da questa rivoluzione. Tutti immaginiamo il primo uomo che si è trovato davanti un fuoco acceso, la sua meraviglia e il suo timore di fronte a questo spettacolo misterioso. Beh, io immagino il primo pugliese che, nel suo tragitto quotidiano, si sia improvvisamente trovato davanti una rotatoria. Me lo immagino che frena, poi arresta il veicolo, allunga il collo e appoggia le braccia al volante per vedere meglio. Sta per una mezz’oretta ad osservare stranito, come vedesse un UFO. “Io dovevo girare a sinistra“, pensa, “com’è che mi fa andare a destra e mi costringe ad un giro inutile?” Poi però il Codice del Levante gli ricorda gli imperativi categorici, e lui risolutamente si immette nella rotonda noncurante delle precedenze, e prende la sua uscita sbattendosene di mantenere la destra.  E dopo di lui, tutti gli altri pugliesi. Il risultato? Solo nelle mie terre ho visto tamponamenti a catena persino nelle rotatorie. Perchè la legge del Passo prima io e il suo corollario alla velocità che voglio hanno infine trionfato, disinnescando la pericolosa finalità delle rotatorie di farti ridurre la velocità in prossimità degli incroci e di evitare i classici incidenti in presenza di semafori. Fieri e liberi, i levantini, possono gridare al mondo di aver sconfitto le rotatorie, tant’è che appaiono talvolta all’entrata di alcuni paesi scritte tipo “Comune de-rotatorizzato”. Leggi il seguito di questo post »


Natale in casa dei paperi

26 dicembre 2009

A differenza della stragrande maggioranza di sociopatici misantropi che odiano farsi coinvolgere da tradizioni coattive e a tutta evidenza false ed ipocrite, a me il periodo Natale è sempre piaciuto. Anzi, per dirla tutta, è una vera goduria. E non certo per i regali fatti (una rottura, soldi buttati) o ricevuti (datemi una busta con dei soldi e lasciate perdere, non mi piacerà mai nulla), quanto per il fatto che nel periodo natalizio sono solito rintanarmi come un ghiro nelle soffici e avvolgenti atmosfere familiari di una casa che si riempie solo per qualche giorno all’anno, e tendo ad uscire solo ove sia strettamente necessario. Giro in pigiama tutto il giorno, ciondolo tra la tv satellitare e una poltrona, poi passo al letto, e così via. Non faccio nulla di preciso, e cionondimeno produco nulla che non riguardi il sacro rapporto tra me e il cesso.

Al momento, ad esempio, mi ritrovo ad aver passato già quasi 6 giorni di vacanza nella magione salentina, ma non ricordo praticamente nulla. E’ come se un buco nero di accidia avesse travolto ogni ricordo. Di certo ricordo le bevute serali con mio padre e il suo vino quasi liquoroso, le battaglie a Mario Kart Wii con Pfaff con tanto di accenno di rissa fraterna, la lettura in poltrona, con bicchiere di crema di limone in mano, di un saggio sulla pericolosità e la falsità della religione, una fallimentare stagione passata ad allenare la Reggiana in serie C1 giocando a Football Manager, i caffè dolcemente serviti dal babbo sulla poltrona mentre guardo quasi commosso l’Estate di Kikujiro di Kitano. Sono uscito di casa un paio di volte, sempre malvolentieri, saggiando l’aria esterna quasi si trattasse di veleno. I miei fratelli, man mano che sono arrivati, si sono adeguati a questo ludibrioso andazzo, così che la casa si è man mano popolata di individui molli e inerti, viziati e melliflui.

Allo stesso modo, il Natale è il momento della tradizione. Chi non mi conosce può pensare che io sia una testa calda iconoclasta e rivoluzionaria, in realtà sono un borghesuccio moderato anche se mal pensante, e dunque rifugiarmi nel consolidato patrimonio di esperienze immutabili della società non mi fa precisamente schifo.

La Vigilia di Natale, in particolare, è per noi cinque un momento ricco di tradizione e liturgie ormai radicate nella storia della famiglia. Come ogni anno si ripetono gesti consacrati, automatismi rituali che fanno sì che ogni anno sia fatalmente indistinguibile dall’altro, e per noi cinque questo è un bene, non una tortura. E’ il nostro momento fondante l’unità familiare, per il resto dell’anno dispersa tra Salento, Emilia e Catalogna. In realtà, la tradizione della cena della vigilia si è modificata col tempo, in modo così impercettibile che ce ne siamo accorti solo dopo anni. Vi descriverò dunque com’era e com’è diventata la mitologica serata di Natale in casa dei paperi.

Com’eravamo.

La Vigilia di Natale tutti e cinque ci siamo sempre recati a messa prefestiva, verso le 7 di sera nella Cattedrale barocca più bella di Lecce. Anni fa ci arrivavamo con una sola macchina,  in orario per prendere posto nei banchi affollati. Usciti, facevamo un giro per il centro, guardavamo il presepone allestito nella piazza principale  e ci incamminavamo a casa, laddove mia madre aveva preparato la cena, rigorosamente di magro, ovvero brodi e pesce. Alla televisione si guardava il cartone di Natale, o la solita Poltrona per due, e si attendeva la mezzanotte per la Suprema Cerimonia di Posizionamento del Bambinello nel Presepe. Leggi il seguito di questo post »


Le sole, lu mare, lu ientu

19 agosto 2009

Il Salento, si sa, d’estate vive di giorno delle sue spiagge e dei suoi due mari. Di sera e di notte, il tacco d’Italia offre un proteiforme calendario di decine e decine di sagre paesane, feste contadine, fiere e spettacoli organizzati praticamente da ognuno del centinaio di comuni sparsi a caso nel territorio.

Ora, il turista che arriva in Salento e vede tutte queste feste di paese ogni sacrosanta sera, sparse nella vastità della piana salentina, pensa: “Minchia che posto pieno di tradizioni, che gente ancorata alla propria cultura, che popò di radici che affondano nella storia, che immensità di scelte culinarie  legate alla tradizione, che posto magico e isolato nel tempo…

E qui arriva Paperoga il rinnegato e polemista, a sfatare in parte anche questo mito salentino.

Perchè trattasi di cazzate. In larga parte, sono tutte cazzate. Il 95% delle sagre in cartellone sono nate magicamente come funghi qualche manciata di anni fa. Dieci anni fa ce n’erano si e no una trentina, anzichè a milioni come oggi. Le sagre più antiche, chiamiamole c0sì,  hanno una trentina d’anni, e comunque ne vedrete ben poche, perchè quelle più genuine si tengono tutte in settembre-ottobre.

Quelle che propinano d’estate sono delle improvvisate reti da pesca per accalappiare turisti meridionali orgoglioni delle proprie ormai sconosciute radici umili e contadine, e turisti settentrionali stregati dal mito del buon selvaggio. Ogni comune ne sforna mediamente tra le due e le tre, ed è chiaro che ormai si è creato un ingorgo di iniziative tra le quali occorre districarsi.

Qual’è la ricetta della perfetta sola, ehm, della perfetta sagra tipica a denominazione di origine controllata? Eccovela qua.

1) Trovare un piatto più o meno tipico su cui impostare la serata. La gente vuole mangiare a scassapanza, anzitutto, quindi bisogna prenderla per la gola. Cultura e intrattenimento vengono dopo. Possiamo distinguere in tal senso tre categorie:

a) Le sagre che ti prendono per curiosità e che puntano alla specializzazione. Cosa sarà mai la sceblasti? O la piscialetta? O la scapece? Niente di che, potrei rispondervi io, ma io sono il dissacratore del Salento e non faccio testo. I turisti ci vanno a frotte per scoprire cosa si nasconda dietro questi nomi esotici, e spesso non si accorgono che si tratta di piatti di risulta, accozzaglie di avanzi che i nostri trisavoli mettevano insieme il giorno dopo. Roba che al supermercato non degneremmo di uno sguardo. Ma nella temperie sognante della riscoperta delle radici, va bene mangiare anche le radici vere e proprie, se qualcuno si mette a cucinarle.

b) Le sagre che rimangono sul vago, o per mancanza di impegno o perchè si sono fatte fregare il piatto tipico dal comune a fianco. La dicitura è quasi misteriosa, ampia e vaporosa: sagra dei sapori locali,  sagra delle quattro stagioni, sagra dei piatti nostri, festa del contadino, sagra del mare e della terra.

c) Le sagre che sfidano il comune senso del pudore e sfacciatamente ti si propinano in tutta la loro assurdità: c’era bisogno di una sagra degli spaghetti al pomodoro? C’è anche quella. E della pizza? E della birra? E potreste mai immaginare che nel profondo Salento possano concepire una sagra del wurstel? Beh, immaginatelo, perchè c’è anche quella.

2) Accompagnare la cena e la digestione con tanta musica popolare.

Il Salento, si sa, è la terra della pizzica. I salentini l’avevano dimenticata per decenni, poi qualcuno ha ricominciato a suonarla e ballarla una quindicina di anni fa, pare sia piaciuta ai turisti, ed ecco l’ennesima tradizione popolare di cui ci si è riappropriati in fretta e furia per poterci proporre come popolo antico agli stranieri che vengono a trovarci.

La pizzica, chiariamolo subito, è una musica affascinante e guardare chi la sa ballare bene è uno spettacolo per gli occhi. Le atmosfere d’estate delle piazze piene di gente che la balla sono uniche.Ma c’è un solo problema. Da quando la pizzica ha attratto i turisti, decine e decine di zozzoni hanno deciso che volevano mangiare anche loro nella grande torta della taranta, e quindi vai a gruppi improvvisati di musica popolare che si spacciano come tali di fronte agli ignari turisti. Pestando i tamburelli a caso e stonando ogni sacrosanta nota di ogni sacrosanta canzone, si fanno i loro picciuli a serata. E ovviamente trovano nelle sagre il loro palcoscenico preferito. I gruppi di pizzica vera ormai sono pochi e non è facile trovarli. Quindi è probabile che vi ritroverete a digerire le vostre tipicità culinarie accompagnati da musica popolare tarocca.

Se cominciate a girare il Salento e farvi qualche sagra, avvertirete probabilmente, se siete buoni osservatori, un piccolo particolare non di poco conto: queste sagre sono tutte uguali. Possono chiamarsi Pippo o Paperino, ma alla fine le cose che si mangiano sono sempre le stesse e la musica che si ascolta pure. E’ una sorta di involontario marchio in franchising, la sagra, che vende prodotti in franchising, musica e cibo. Se vi abbuffate di sagre, è probabile che a fine vacanza le confondiate  o vi dimentichiate di esserci stati. Non sono un evento, ormai, sono uno stanco e quotidiano refrain che tendenzialmente stufa. Gli orsi polemici come me, intendo.

Quindi, il consiglio del rinnegato è, se dovete proprio andarci, di scegliere la sagra in base al paese dove si trova. Ci sono paesini molto belli e paesini indecentemente piallati dal cemento. Informatevi, e scegliete i primi.

E’ come quando si va al McDonalds: visto che ci si va, è meglio andare in quello in piazza Duomo che in quello della stazione ferroviaria.


Gimme hope, Salento

3 agosto 2009

sole salento3

Passare qualche giorno d’estate nella mia terra è una tradizione. Di più, un bisogno fisiologico. Di più, di più, un irrefrenabile richiamo della foresta. E’ come se qualcosa di insondabile mi chiamasse a sè, per chissà quale motivo, dalle paludi emiliane piene di afa e di ozono, il cui unico richiamo balneare sono le rare pozze sul fiume Po o le piscine urbane in periferia, e mi attraesse verso le selvagge spiagge salentine, le sagre paesane di sera, verso la bellezza mossa ed arsa di una terra ventosa dai due mari, ove per di più ho vitto e alloggio gratis.

Davvero, non so spiegarmelo come mai mi scatta questa attrazione verso la mia terra ad un certo punto. Sarà che sono un romanticone.

Comunque, appena arrivato in vacanza, uno dei problemi è gestire la prima abbronzatura. Essendo chiaro di pelle, biondo di capelli e pieno zeppo di nei sempre pronti a fare il grande zompo verso mutazioni cancerogene, devo prestare molta attenzione e prendere il sole con gradualità. Se tutto va bene, per una settimana rimango grigio topo, carnagione che ho assunto grazie al sole tropicale della Padania, e poi la seconda settimana assumo un colorito lievemente più terrone, senza mai raggiungere però le vette carbonizzate di molti miei conterranei zulù.

Una piccola premessa, altrimenti mi prendete per snob. Io preferisco la spiaggia allo scoglio. Essendo fondamentalmente un pigro, non sono certo uno di quegli alternativi che si scoppano fior di mulattiere zompando come capre tra una roccia e l’altra per arrivare nel posto che nessuno conosce, con lo scorcio inestimabile e la caletta dentro il cui mare si arriva solo con un tuffo di cinque metri e da cui si risale facendo pareti di roccia. No, a me piace la spiaggia, il mare a portata di mano, libri da leggere, tette da mirare, insomma sono il solito triste borghesotto.

Detto questo, però, andare al mare è molto bello, prendere il sole fa bene alla pelle, guardare tanta figa riscalda il cuore, però c’è una regola maturata con l’esperienza di anni ed anni: non si va mai al mare di domenica d’agosto. Oppure il giorno di Ferragosto. Per una regola di buon senso, è meglio restare a casa a guardare un film, o a giocare a carte con qualche zio. Perchè là fuori, nel tacco d’Italia, c’è un enorme termitaio di bagnanti che affollano qualsiasi residuo di spiaggia, dallo Ionio all’Adriatico, onde per cui l’unico modo che hai di entrare in acqua è di calpestarli come formiche.

Mi arriva però una telefonata e un invito che non si può rifiutare. Si può rifiutare l’invito di tanti, ma non di un’amica ritrovata. E allora eccomi all’una in macchina per raggiungere una delle località più gettonate della costa ionica, di cui non farò il nome perchè questo post non sarà propriamente un inno alla vacanza nel Salento, e solitamente le pro-loco turistiche sono abbastanza suscettibili. Se pensate che proprio ieri ad una ausiliaria del traffico hanno bruciato la macchina per una multa di troppo, c’è da che essere prudenti in questo far west di irragionevoli ai confini d’Italia.

Arrivo alle due meno un quarto al mare, ed è un momento di calma apparente. I residenti sono a casa a scofanarsi gigantesche teglie di pasta al forno e frise al pomodoro e ricci appena pescati, tutti asserragliati nelle loro case abusive e condonate a due passi dal mar. I bagnanti in trasferta invece sono in spiaggia a mangiare più o meno le stesse cose. Dopo aver parcheggiato ad un sopportabile kilometro dalla spiaggia, arrivo presso la medesima scalando quel che è rimasto di una antica duna, ormai totalmente distrutta e priva di macchia grazie ai bravi coglionauti che fanno i falò e che alimentano il fuoco con i piccoli arbusti presenti.

Il panorama, dalla collinetta, è dantesco. Ci sono migliaia di persone nel raggio di 500 metri, e per migliaia intendo forse una decina di migliaia. Di tutto, famiglie allargate, comitive di giovinetti, coppie che limonano, famigliuole con paletta e secchiello, poderosi topless a riva, culi random che saltellano in acqua, e poi racchettoni, pallonate, tavolini con tornei di burraco in atto da ore, tende montate da cui provengono musiche da stereo portatili, baretti ad intermittenza dove vendono rinfreschi allo stesso costo dei bar di zona San Babila. In altre parole, l’inferno in terra.

Mi faccio strada tra la gente stravaccata sui teli da spiaggia, calpesto borse zaini braccia culi orologi per arrivare sul bagnasciuga e trovare la comitiva di amici che incontro dopo qualche minuto. Mi spoglio velocemente, esibisco il mio solito costumino nero che indosso imperterrito da dieci anni sfidando le mode e le risate altrui. E mi fiondo verso il mare, cercando di liberarmi di questa oppressione di gente disposta stretta a caso sulla sabbia. Ma dentro il mare c’è pure più gente che in spiaggia. Chiunque. Una marea di corpi spanzati, in piedi, in movimento. Le conseguenze del sovrappopolamento si fanno sentire sul colore dell’acqua che, da queste parti solitamente cristallina, ricorda quella del Po. Una persecuzione. Leggi il seguito di questo post »


Non è un paese per Paperoga (atto secondo)

25 giugno 2009

arrotino

Avete mai fatto il classico sogno nel quale dovete recarvi in un luogo entro una certa ora e vi capitano confusamente mille imprevisti che rallentano in modo alquanto frustrante l’avvicinamento, fino a renderlo impossibile? A me capita, e penso sia normale per chi vive ossessionato dagli orari, per uno che non sopravviverebbe in un’isola deserta senza acqua, una donna nuda e il suo fido orologio al quarzo. Però l’altro giorno è successo davvero.

Vi ho già raccontato della fila alle poste, del matrimonio incombente, degli strani personaggi che popolano il mio paese. Andiamo dunque avanti.

Torno a casa, mi infilo in doccia, mi vesto come usa vestire in queste occasioni, ovvero nè più nè meno che come un maggiordomo che senza giacca pare un cameriere.  Tutto in pochi minuti. Ho davanti a me 25 minuti per fare 12 km in macchina. Ragionevole. Ma non ho fatto i conti con questi oscuri meandri e la loro magia nera.

Mi infilo in macchina con mio fratello Pfaff e la sua novia, ed esco per le strade del paese. Strade bucherellate manco si trattasse di Beirut, strade strette e senza segnali, dove la legge della precedenza è data da chi occupa baldanzosamente per primo l’incrocio. E dove circolano, sopratutto, strani veicoli che nel mio paese dettano il ritmo del traffico, smorzandolo, rallentandolo, come dei metronomi improvvisati ed ostinati.

Il primo veicolo in cui ci imbattiamo è una fottuta Apecar. Ne circolano ancora a centinaia nel paese, sballonzolano nelle buche a venti all’0ra, prive di ripresa, sempre piene di strana merce che deborda fuori dal cassone. Una mela qua, un po’ di calce là, carciofi o ulivi potati, c’è sempre qualcosa che cade. Chi le guida solitamente è pienamente consapevole dell’effetto paralizzante che ha sul traffico, ma ne è altrettanto indifferente. Non si mette da parte, non facilita il sorpasso. Sta lì, come una cornacchia che avanza sulla strada zampa a zampa, ondeggiante in modo quasi ipnotico, e dietro non puoi fare altro che tuonare bestemmie, accettando il tuo destino. L’Apecar che ci precede trasporta strani secchioni di vernice, e va talmente piano che la gente sul marciapiede camminando la supera di slancio. I bimbi in bici sono quasi tentati dal farci un giro attorno. Dietro, in qualche minuto si è formata una coda mostruosa. Mancano sempre meno minuti al matrimonio, ed io ho fatto si e no 500 metri. Tentiamo di superare, ma non c’è spazio e rischiamo lo schianto. Giunti ad un incrocio, a destra si imbocca un cavalcavia in forte pendenza. Prego la madonnina della neve che quel catorcio non si inerpichi a 4 all’ora su quella salita, altrimenti non arriverò in tempo neppure per il taglio della torta. La madonnina mi ascolta, l’Apecar sterza a sinistra e mi lascia libero di sfogare i cilindri della macchina lungo il cavalcavia in salita e poi in discesa. Leggi il seguito di questo post »


Non è un paese per Paperoga (atto primo)

16 giugno 2009

ghost_town

Il paese in cui sono cresciuto e in cui ancora vivono i miei genitori è uno sgangherato ed ipertrofico postaccio in cui si annidano, mica tanto nascosti, individui irragionevoli, lividi, invidiosi, cattivi sin dagli scavati lineamenti del viso, molti dei quali presentano un colore terrastro, marciti come sono dal sole. Quando aprono bocca ne esce fuori, quasi come una fiatella pestilenziale, la più  cacofonica tra le inflessioni salentine.

Tornare a casa per me è, oltre che un dolce ritorno all’ovile, un esercizio di pazienza infinita, che necessita di controllo e training autogeno sufficiente ad impedire che io sbrocchi, come Michael Douglas in un giorno di ordinaria follia, e faccia fuori a calci nel ventre un bel po’ di questi maledetti tangheri.

Sono tornato in Terronia per un matrimonio. Il giorno dei fiori d’arancio ci sono già 35 gradi secchi secchi alle nove di mattina, ed un sole che ingiallisce la vista dell’esterno giorno quasi come in CSI Miami. Ho tre ore di tempo per spedire tre pacchetti in posta, tornare a casa, fare una doccia, vestirmi ed andare al matrimonio. Un tempo ragionevole si dirà, anzi, c’è da prendersela comoda. Ma io so che non c’è nulla di ragionevole nel posto in cui sono cresciuto. Quindi esco alle nove in punto da casa, devo comprare delle buste, scriverci sopra, andare in posta, spedirle e tornare a casa. E so già che sarà una lunga mattinata e che c’è una cosa che devo fare anzitutto: andare in posta a prendere il numero.

L’ufficio postale del mio paese è una stamberga mal coibentata che serve una popolazione di 15mila abitanti. E’ dunque sempre piena come un uovo, con pochi ed esasperati dipendenti che non so se siano più vittime o carnefici dell’inefficienza che vi alberga come un batterio invincibile. Ci arrivo a piedi ed entro. Una fiumana di gente, per lo più anziani, è già riversata dentro, io prendo il numerino e vedo che ci sono 20 persone prima di me. E poi dici che i terroni si alzano tardi e se la prendono comoda.

La cartoleria è ancora più vicina a casa mia. Il commerciante, come avviene di solito in estate nella maggior parte dei negozi del paese, non è dentro dietro al bancone che ti attende, ma fuori, e nello specifico è un ammasso di gelatina di carne seduto anzi sprofondato su una sedia, con in mano quella che ha tutta l’aria di essere una cedrata, da cui sorseggia quasi voluttuosamente con una cannuccia. Il dialogo dunque si svolge fuori.

“Buongiorno, avete delle buste per pacchi, di quelle imbottite?

“No, non le tengo quelle.”

“Sa dove posso trovarle?”

Mi guarda, guarda dietro di me e pare scuotere lievemente il capo.

“A piedi stai?”

“Si”.

“E allora niente, c’è un posto, ma sta lontano, ti serve la macchina”.

“Beh, dov’è più o meno..”

“Dritto per questa via, quasi duecento metri”

“(Mavaff…) Beh, allora è qui vicino, ci vado subito”

Ma te sta coddhra propriu cu camini comu a nu ciucciu sutta allu scattu te lu sule?”*

“Correrò questo rischio. Grazie per l’interesse, buongiorno”.

Duecento metri a piedi e a quel batrace pare la traversata nel deserto. Lo guardo ancora che mi saluta col capo mentre continua a sorseggiare la sua cedrata. Camina, fessa..**, sembra volermi dire. Leggi il seguito di questo post »