Non è un paese per Paperoga (atto primo)

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Il paese in cui sono cresciuto e in cui ancora vivono i miei genitori è uno sgangherato ed ipertrofico postaccio in cui si annidano, mica tanto nascosti, individui irragionevoli, lividi, invidiosi, cattivi sin dagli scavati lineamenti del viso, molti dei quali presentano un colore terrastro, marciti come sono dal sole. Quando aprono bocca ne esce fuori, quasi come una fiatella pestilenziale, la più  cacofonica tra le inflessioni salentine.

Tornare a casa per me è, oltre che un dolce ritorno all’ovile, un esercizio di pazienza infinita, che necessita di controllo e training autogeno sufficiente ad impedire che io sbrocchi, come Michael Douglas in un giorno di ordinaria follia, e faccia fuori a calci nel ventre un bel po’ di questi maledetti tangheri.

Sono tornato in Terronia per un matrimonio. Il giorno dei fiori d’arancio ci sono già 35 gradi secchi secchi alle nove di mattina, ed un sole che ingiallisce la vista dell’esterno giorno quasi come in CSI Miami. Ho tre ore di tempo per spedire tre pacchetti in posta, tornare a casa, fare una doccia, vestirmi ed andare al matrimonio. Un tempo ragionevole si dirà, anzi, c’è da prendersela comoda. Ma io so che non c’è nulla di ragionevole nel posto in cui sono cresciuto. Quindi esco alle nove in punto da casa, devo comprare delle buste, scriverci sopra, andare in posta, spedirle e tornare a casa. E so già che sarà una lunga mattinata e che c’è una cosa che devo fare anzitutto: andare in posta a prendere il numero.

L’ufficio postale del mio paese è una stamberga mal coibentata che serve una popolazione di 15mila abitanti. E’ dunque sempre piena come un uovo, con pochi ed esasperati dipendenti che non so se siano più vittime o carnefici dell’inefficienza che vi alberga come un batterio invincibile. Ci arrivo a piedi ed entro. Una fiumana di gente, per lo più anziani, è già riversata dentro, io prendo il numerino e vedo che ci sono 20 persone prima di me. E poi dici che i terroni si alzano tardi e se la prendono comoda.

La cartoleria è ancora più vicina a casa mia. Il commerciante, come avviene di solito in estate nella maggior parte dei negozi del paese, non è dentro dietro al bancone che ti attende, ma fuori, e nello specifico è un ammasso di gelatina di carne seduto anzi sprofondato su una sedia, con in mano quella che ha tutta l’aria di essere una cedrata, da cui sorseggia quasi voluttuosamente con una cannuccia. Il dialogo dunque si svolge fuori.

“Buongiorno, avete delle buste per pacchi, di quelle imbottite?

“No, non le tengo quelle.”

“Sa dove posso trovarle?”

Mi guarda, guarda dietro di me e pare scuotere lievemente il capo.

“A piedi stai?”

“Si”.

“E allora niente, c’è un posto, ma sta lontano, ti serve la macchina”.

“Beh, dov’è più o meno..”

“Dritto per questa via, quasi duecento metri”

“(Mavaff…) Beh, allora è qui vicino, ci vado subito”

Ma te sta coddhra propriu cu camini comu a nu ciucciu sutta allu scattu te lu sule?”*

“Correrò questo rischio. Grazie per l’interesse, buongiorno”.

Duecento metri a piedi e a quel batrace pare la traversata nel deserto. Lo guardo ancora che mi saluta col capo mentre continua a sorseggiare la sua cedrata. Camina, fessa..**, sembra volermi dire.

Una volta comprate le buste, ritorno in posta. Stranamente in questo tragitto non sono morto disidratato accanto ad un teschio di bisonte, circuito da un crotalo, come il negoziante aveva probabilmente immaginato, obnubilato dai fumi della sua cedrata.

La posta è ancor più ricolma di gente. Molti stazionano fuori, respinti dall’ammasso di paesani in fila per pagare l’ICI. Io riesco ad entrare a malapena. Non c’è una parvenza di coda, manco se la intendiamo secondo una ricostruzione cubista. C’è una lunga pista cifrata di puntini a forma di persone che riproducono la stilizzazione del caos.

Dovete sapere che nella posta del mio paese vivono strane creature che dovrebbero essere studiate da dotti entomologi. Riesco infatti ad avvicinarmi allo sportello per chiedere dei moduli per raccomandata, che ne incontro già uno, in realtà il più comune e diffuso di tutti:  il Gendarme della Fila, curiosa figura di civile volontario aspirante rondista, molto diffuso negli sportelli postali del sud, il quale è già pronto a rimbrottarmi.

“Mi scusi, guardi che deve fare la fila come tutti, sa’?”, mi pungola col solito tono odioso, in un apparentemente corretto italiano, figlio di chissà quali sforzi sovraumani che  questa gente compie  quando decide di far finta di passare dalla parte di chi rispetta le regole e non le fa fesse. Ma io non sono disposto a prendere pillole di legalità da questi furbacchioni, e devo dissentire.

“Chiedo solo dei moduli per raccomandate. Si risparmi la predica per qualcun altro”. Sono calmo, un filo di sarcasmo in due o tre cubetti di ghiaccio.

“Eh si, però qua fanno tutti così e poi vedi che saltano la fila…”, continua il Gendarme, che poi sarebbe un sessantenne sudato in maglietta della salute, che cerca consenso nella folla lamentosa, e pare trovarlo.

Io non me lo filo di pezza, mi apparto e comincio a scrivere i miei moduli. Manca ancora qualche numero, sono in tempo. Nel frattempo assisto alle solite pantomime di quella giungla in cui la ragione si è perduta.

Una vecchietta con stampella si avvicina a grandi falcate allo sportello, e chiede di parlare con il direttore, è un suo diritto dice. La dipendente le chiede “che vuole dal direttore”, senza manco guardarla. La riconosco. E’ il Masaniello di Turno, creatura principe degli uffici postali del meridione, una sorta di sindacalista autonominatosi tale che vuole reclamare a gran voce i suoi diritti.

“Io sto aspettando qui da due ore, è indecente.”

“L’ufficio ha aperto da un’ora, signora.”

“Vabbè, è un modo di dire, non mi interrompa! A noi anziani ci fanno aspettare troppo, noi dovremmo passare per primi, avere la precedenza, siamo malati e non ci reggono le gambe…”

Qualcuno annuisce, molti ridacchiano, un paio di anziani li senti dissociarsi: “Malati? le gambe? Ma parla  pe tie!***”

Dopo tre minuti la signora è stata magicamente servita, e da brava sindacalista, una volta goduti i privilegi della rivolta, si dimentica dei suoi rappresentati. Piglia il bastone, fa dietro front, e scompare, saltandosi bellamente una mezz’ora buona di fila.

Dopo qualche minuto un altro accenno di ribellione, e poi dicono che i terroni sono dei fatalisti che accettano qualsiasi regime impostogli.

“E’ scandaloso, nu se pote spettare tuttu tu tiempu. Ma comu cazzu le organizzati ste cose?, dice un altro anziano Masaniello di Turno, stessa maglietta della salute del Gendarme della Fila e stesse chiazze di sudore negli stessi punti.

“Innanzitutto moderi i termini, cosa deve fare lei?”

“L’estratto conto!”

“E non lo può fare fuori al Postamat?”

Ma ieu ce sacciu come se usa lu postamat, se me lu futte la machina me dai lu tou?****

Io ridacchio dentro di me, e prima che arrivi il mio turno assisto ad altre scenate del prossmo Gendarme della Fila o del Masaniello di Turno, che vi risparmio perchè il canovaccio è sempre lo stesso.

Arriva il mio numero. Sono un po’ dietro, nascosto dalle persone, e quindi ci metto un po’ di tempo ad arrivare. Nel frattempo al mio posto si è già intrufolato il Fottitore di Posto. Non capita sempre di incontrarlo, è un po’ una specie rara che è sempre bello quando ti capita di vederlo. Poi nel mio caso, quale onore,  sono proprio io la vittima designata. Il Fottitore di Posto è un coraggioso truffatore che ha un numero a caso in mano, ovviamente non quello giusto, che staziona vicino allo sportello con finta aria distratta, e che appena sente chiamare due volte lo stesso numero si infila con prontezza di riflessi e buona dose di sprezzo del pericolo, simulando di avere il numero chiamato. E’ una specie rara nel nord italia, per cui se lo racconti agli emiliani che esiste davvero, ti prendono come Messner quando racconta di aver visto lo Yeti.

In questo caso, al Fottitore gli va malissimo. Arrivo io e mostro il numero. Lui mi guarda, vorrebbe uccidermi deponendomi in una vasca di calce viva. La dipendente gli chiede “scusi, ma lei che numero ha?” Il Fottitore si trasforma allora in Toto le Moko.

Ah. nu bbè lu sessantottu? Lu quarantottu? Saierma, m’aggiu cunfusu, scusati…“******, e si defila veloce come una serpe uscendo dall’ufficio. Dopo un’ora e quaranta minuti dall’aver preso il numero, vengo finalmente servito.

Dopo due ore sono dunque a casa. Ho ancora un’ora, una doccia veloce e poi via al matrimonio. Ma questo paese pare reclamarmi come un ragno nella sua tela, tende ad impormi i suoi ritmi da controra messicana, a rallentare qualsiasi mio movimento. Ed ha ancora veleno da spruzzare dalle sue fauci. Non è infatti finita qui. (continua..)

*: “Ma ti sta proprio andando di camminare come un asino sotto la calura del sole?
**:” Cammina, fesso..”
***:” Parla per te!”
****: ” Maio che ne so come si usa il postamat, se la macchina me lo trattiene mi dai poi il tuo?”
*****:” Ah. Non è il turno del 68? Il 48? Acciderbolina, mi sono confuso, scusate.”

10 Responses to Non è un paese per Paperoga (atto primo)

  1. punzy ha detto:

    fantastico, paperoga, a napoli è UGUALE IDENTICO, solo che i napoletani sanno fare meglio la scenetta della pretesa dei diritti ed i fottitori di posto sono più cattivi e in genere tengono il coltello…anche l’urbe non scherza ed io, come avrai notato, di questi episodi ci vivo…

  2. CMT ha detto:

    Be’, anche qui non è che sia diverso, cambia solo il dialetto.

  3. Paolo ha detto:

    Papero’ sei un Mito!

  4. Sally Cinnamon ha detto:

    Ho sorriso amaramente a sentire questa tua “epopea” ben sapendo che è una scena che si ripete uguale nella maggior parte delle città/paesi d’Italia… Il che non ci fa molto onore…

  5. Valentina ha detto:

    Andrò in posta 4/5 volte all’anno per fortuna, e a nord come a sud mi chiedo perché all’interno degli uffici postali si riversino così tante persone….e parlo di Paesini di 3000/5000 abitanti al massimo, di cui facciamo che almeno un 30% è minorenne ed in posta non ci va.
    Pagano le pensioni tutti i giorni? Pagano l’ICI tutti i giorni? Pagano le bollette tutti i giorni? Perché non se le fanno domiciliare in banca che ci evitiamo anche i racconti di cronaca nera sul giornale locale “anziana rapinata fuori dall’ufficio postale”…..non è un Paese per vecchi…..

  6. prefe ha detto:

    pensa che al mio quartiere non credo di aver mai fatto una fila piu` lunga di 8 minuti in posta.non c’e` fila, non saprei perche`

  7. paperogaedintorni ha detto:

    punzy: in effetti il tuo racconto sulla nonna urbana ha molti punti in comune
    sally e valentina: raramente ho visto poste efficienti, al nord come al sud. al sud però c’è quell’esubero endemico di dipendenti, figlio della politica “assumi nel pubblico metà dei meridionali perchè il privato non decollerà mai” che ti fa chiedere come mai così tanti dipendenti e così poca efficienza
    prefe: tu piuttosto continua il tuo reportage sugli USA, hai una grande occasione di fare il documentarista
    paolo: non esageriamo, sono solo “il contabile dell’ombra di me stesso”.

  8. riccardosalvioni ha detto:

    Posto che le attese sono difficilmente riducibili, dovrebbero provare a inventare qualcosa per rendere il bivacco meno umiliante. Che ne so, qualcosa tipo i giocolieri con le tre palle o un cabarettista o i leoni..
    Roma è come Paperopoli, per inciso. Ma non c’era bisogno che lo ricordassi.
    riccardosalvioni.wordpress.com

  9. Yuki Aka Prisma ha detto:

    Fortissimo! ‘Sti loschi figuri li ho incrociati tutti, pari pari, qua a Roma. Precisi, proprio.
    Ricordo ancora il ghigno di soddisfazione dello sportellista napoletano che un giorno colse in flagrante il Fottitore di Posto che attentava al turno della sottoscritta! Per tutto il tempo in cui mi ha servito, ha continuato ad autoincensarsi per la sua prova da ispettore Derrick de’ noantri.

    Aggiungerei alla galleria di personaggi della fauna da ufficio postale anche le vecchie rompiballe che ti si appiccicano addosso mentre sbrighi le tue pratiche allo sportello e ti fiatano sul collo per tutto il tempo, sbuffando e borbottando. Alla faccia della privacy!

  10. dieghermaister ha detto:

    io vivo in romagna. l’altro giorno un furbacchione locale che per dire “s” dice esshe e “Z” seta si è intrufolato con il carrello davanti a me al discount. l’ho cazziato ostentando il mio dialetto salentino e l’ho letteralmente buttato da parte dicendogli di imparare a stare al mondo. l’unico a darmi ragione, fra tanti stupiti da cotanta mia tracotanza, è stato un distinto signore di colore, cioè negro di merda nel codice mentale di codeste latitudini, evidentemente più terrone di me…

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